timone Il Mercante in Rete
available also in English

timone
Marketing e comunicazione nell'internet


Numero 59 – 3 settembre 2001

 

 
Consiglio a chi legge abitualmente il Mercante in Rete
di tener d’occhio la segnalazione delle

novità
per verificare se c’è qualcos’altro
che possa trovare interessante.
 

 


loghino.gif (1071 byte) 1. Editoriale:
Libertà di software: un movimento mondiale?


Un nuovo movimento si aggira per il mondo. Ancora confuso, disordinato, non molto visibile. Ma sembra che – con molti anni di ritardo – si cominci a prendere coscienza del fatto che i sistemi informativi e culturali del mondo non possono essere assoggettati ai capricci e alle prepotenze di un aggressivo monopolista. Prima di entrare nell’argomento specifico, vorrei fare quattro premesse.

  • È evidente che quando una singola azienda ha oltre l’80 per cento del mercato su scala mondiale si parli di monopolio – e che l’attenzione si concentri sul monopolista. Specialmente quando il comportamento di quell’impresa è, per molti aspetti, criticabile, nocivo e pericoloso. Ma non si tratta di essere “pro o contro” la Microsoft. Si tratta di stabilire princìpi e metodi che siano validi per tutti. I sistemi informatici, e ancor più telematici (in particolare l’internet) sono nati e si sono evoluti inizialmente nel mondo scientifico e in un quadro di collaborazione aperta. La degenerazione “proprietaria” ha messo troppe leve fondamentali nelle mani di interessi privati e di concentrazioni che reprimono ogni libertà: di mercato, di sviluppo tecnologico, di informazione e di opinione.


  • Non si tratta semplicemente di una scelta “fra Windows e Linux”. Se è vero che oggi Linux (insieme ad altre soluzioni libere e aperte della “famiglia Unix”) è la migliore alternativa praticamente disponibile, ciò che conta è stabilire un principio universalmente valido che assicuri libertà, compatibilità e trasparenza.


  • Non si tratta solo di informatica o telematica. Attraverso il dominio dei sistemi operativi, e di conseguenza dei programmi, è possibile esercitare un prepotente controllo sulle reti, sul comportamento di persone e imprese, invadere il terreno della comunicazione e della cultura, violare la privacy. Soprattutto quando è nascosto il “codice sorgente” e quindi i contenuti e il funzionamento dei programmi non sono verificabili. È palese e dichiarato che l’attuale monopolista ha già fatto molte di queste cose e ha tutte le intenzioni di fare ancora peggio. Ma se altri si trovassero nella stessa situazione probabilmente farebbero cose analoghe. O avrebbero la possibilità di farlo – cosa comunque inaccettabile.


  • Nel momento in cui la percezione di questo problema si estende a livello internazionale, la reazione assume spesso un tono “antiamericano” (con la sgradevole conseguenza che si possano attenuare le – purtroppo deboli – spinte antimonopoliste negli Stati Uniti). Non è questo il punto. Se è preoccupante che ci sia un esagerato predominio di un solo paese sull’informatica e sull’internet (come sulla cultura e sull’economia del mondo) la soluzione non sta in limitazioni “protezioniste”. Al contrario, occorre una liberazione del sistema che permetta una più efficace concorrenza da parte dell’Europa e del resto del mondo.

“Ciò premesso” – veniamo al punto. Con molti anni di ritardo, sembra che il mondo cominci a svegliarsi e a prendere coscienza del problema. Notizie diffuse alla fine di agosto 2001 dicono che ci sono varie iniziative tendenti allo stesso obiettivo. Si stanno sviluppando in Brasile, in Argentina, in Messico e in altri paesi dell’America latina (tanto è vero che qualcuno definisce il movimento con un aggettivo spagnolo, software libre, in assonanza con una nota bevanda). Sembra che non si tratti solo di dichiarazioni, ma anche di fatti concreti. Per esempio risulta da altre fonti che in Brasile si stanno adottando soluzioni opensource nel sistema sanitario – in Messico nella scuola.

In Cina mancano notizie precise e aggiornate – ma da tempo si parla di adozione “ufficiale” di sistemi operativi opensource (potrebbero essere interpretazioni cinesi di Linux o di altri sistemi compatibili con Unix).

In Europa sembra che finalmente l’Unione Europea (in particolare il commissario Mario Monti) stia cominciando a prendere coscienza del problema. Le posizioni europee sul monopolio del software appaiono ancora deboli e frammentarie – ma sembra prender forma una strategia per l’adozione di soluzioni opensource. Le cose procedono un po’ lentamente a livello parlamentare in Francia (dove tuttavia ci sono iniziative diffuse e si sta formando un’agenzia governativa per “per incoraggiare l’amministrazione pubblica a usare software libero e standard aperti”) e in Germania (dove da tempo il governo finanzia lo sviluppo di sistemi aperti basati su Unix).

Non mancano, nel mondo, attività “spontanee” che non solo segnalano il problema ma offrono e realizzano soluzioni concrete. Ciò che finora è mancato è un coordinamento efficace – nonché un intervento coerente delle autorità pubbliche, nazionali e internazionali.

Ci sono anche iniziative di imprese private, come quella dell’Ibm che ha dichiarato di voler investire 200 milioni di dollari per lo sviluppo di soluzioni opensource in Asia. (E altre che non fanno gran che di concreto ma, almeno nelle loro dichiarazioni, vedono di buon occhio tutto ciò che può allentare le catene del monopolio e dare spazio alla libertà di mercato).

Il fatto preoccupante è che tutti tendono a soffermarsi su alcuni aspetti di dettaglio e perdono di vista la vera natura del problema. (Compresi i magistrati americani che da otto anni indagano sul monopolio ma finora non hanno ottenuto alcun risultato – e compresa, come già osservato, l’Unione Europea). Sarebbe desiderabile che una prospettiva internazionale riuscisse a far convergere analisi diverse in una diagnosi più organica – e così indirizzarsi verso una terapia più efficace.

In Italia? Ci sono parecchie situazioni locali in cui la pubblica amministrazione usa sistemi opensource (anche se il concetto non è sufficientemente compreso a livello centrale). C’è una mozione approvata il 26 luglio 2001 dal Consiglio comunale di Firenze che stabilisce “l’impiego di software libero o almeno open source” nella pubblica amministrazione (un fatto in sé minuscolo e poco significativo rispetto alle esigenze nazionali ed europee – che tuttavia ha avuto una certa eco internazionale). Ci sono state varie iniziative per porre con chiarezza il problema; soprattutto il comunicato di ALCEI del 29 gennaio 1999 È compito delle istituzioni pubbliche liberarci dalla schiavitù elettronica – che è ben noto al mondo politico e alla gestione centrale dei servizi pubblici perché è stato formalmente incluso negli atti del Forum per la società dell’informazione della presidenza del consiglio (giugno 1999) oltre che diffuso e documentato in vari incontri e convegni dedicati a questo argomento.

Ma finora questi evidenti e gravi problemi sono stati ignorati dal parlamento, dal governo e dall’amministrazione centrale, che hanno vergognosamente perseverato – con ingiustificabile entusiasmo e servilismo – nell’asservire i nostri sistemi pubblici (comprese la scuola e la sanità) a un monopolio straniero e incontrollabile con i “codici occulti” – cioè con sistemi che è impossibile conoscere e verificare. Come ho scritto altre volte... è come se la fornitura dell’acqua potabile fosse consegnata a un monopolista privato che (oltre a farcela pagare più cara del vino) non obbedisce alle nostre leggi né a quelle europee – e non ci permette un’analisi chimica di ciò che siamo costretti a bere.

Naturalmente il problema non riguarda solo la pubblica amministrazione. Ma da qualche parte bisogna cominciare. Se le imprese devono essere lasciate libere di fare ciò che vogliono (anche se è assurdo che siano così ciecamente “rassegnate”) non è accettabile che tecnologie e metodi sbagliati e dannosi siano adottati dai servizi pubblici e così “imposti” a tutti. Quindi è dal settore pubblico che occorre partire – con la speranza che soluzioni più sane, libere e funzionali si diffondano anche nelle imprese private. Il che non significa solo risparmiare miliardi e avere sistemi più efficienti, ma anche evitare inaccettabili invasioni della nostra libertà e autonomia culturale.

Siamo agli inizi di una “insurrezione” mondiale che finalmente porrà con chiarezza il problema? Speriamo. Per ora è troppo poco – e troppo tardi. Ma è sempre più evidente che questa situazione è grave e tende a peggiorare. Dovrà essere in qualche modo affrontata e risolta.


 
Questo articolo è stato anche
pubblicato il 5 settembre 2001
su
Punto Informatico
(dove ha suscitato
un ampio dibattito)

e il 13 settembre 2001
su
InterLex
(dove ci sono anche documenti
su alcuni fra i molti errori
e sprechi della pubblica
amministrazione in Italia)
 

ritorno all'inizio

 

loghino.gif (1071 byte) 2. I misteri dell’India


È passato parecchio tempo (più di due anni) da quando ho pubblicato l’ultima analisi sui “grandi paesi a bassa densità” nell’uso dell’internet. Forse ne farò un aggiornamento quando arriveranno nuovi dati internazionali – se ci saranno cambiamenti significativi.

Ma intanto diamo di nuovo un’occhiata ai due più grandi paesi del mondo. La Cina e l’India.

Alla fine del 1998 c’erano 13.000 host internet in Cina. Alla fine del 2000 erano 90.000 e probabilmente oggi sono quasi 150.000. Una crescita notevole – ma su quantità minime per quell’immenso paese. La densità rispetto alla popolazione è intorno allo 0,1 per mille (vedi a questo proposito l’analisi sull’area di cultura cinese). Ci sono limiti ovviamente dovuti alla vastità del territorio e alle scarse risorse economiche di gran parte della popolazione. Ma si tratta soprattutto di repressione politica.

Molto diverso è il caso dell’India. Si discute in questi giorni sulla bizzarra decisione del governo indiano di far crescere la diffusione della televisione come strumento per il controllo delle nascite. Ma non si parla di un’altra decisione, presa tre anni fa, e del tutto inattuata. Il governo della “più grande democrazia del mondo” si era pubblicamente impegnato a favorire la diffusione dell’internet. Con idee molto sensate, come quella di agevolare la moltiplicazione dei provider, usare (oltre alla quella telefonica) le reti delle ferrovie e della distribuzione di elettricità, eccetera. Nessuna di quelle promesse si è realizzata.

Alla fine del 1998 l’India aveva 13.000 host internet. Oggi ne ha 36.000 (o forse, secondo altre fonti, 43.000). Meno di quanti ne ha l’Islanda o l’Estonia. Le cose non vanno meglio nel resto del “subcontinente” indiano. Il Pakistan è passato da 3.000 a 6.000 host internet. In Bangladesh non se ne rilevava neppure uno, oggi se ne trovano solo 3. Mentre l’India e il Pakistan si contendono il Kashmir minacciandosi a vicenda con armi atomiche.

Tutto questo è inevitabile, perché l’India è un paese povero? Non è vero. Ci sono più persone “benestanti” in India che in Francia o in Gran Bretagna. Il “prodotto interno lordo” dell’India (sottovalutato perché non considera le vaste aree di “autoconsumo”) è simile a quello della Germania. Più persone parlano inglese in India che nelle isole britanniche. Ci sono molti indiani con un alto livello culturale e con specifiche competenze tecnologiche. Non è possibile, allo stato attuale dell’arte, immaginare che in India ci possa essere una densità di uso della rete paragonabile a quella dell’Europa. Ma non c’è alcun motivo per cui l’India non possa avere un numero di host internet pari a quello di un paese con 15 milioni di abitanti – come l’Olanda. Cioè due milioni e mezzo (vedi l’analisi sui dati europei).

Il problema dell’India misteriosa (come la chiamava Emilio Salgari) è perché non sia in grado di risolvere questo problema. Le risorse ci sono. La volontà politica (in teoria) è dichiarata. È evidente che gli ostacoli sono tre. L’incapacità (o non reale volontà) del governo centrale e di quelli locali di mantenere le loro promesse. La cronica inefficienza della burocrazia. E la concentrazione del potere economico in poche, avide mani.

Può sembrare un problema “lontano” per chi vive in Europa. Ma si tratta di un miliardo di persone (milletrecento milioni se pensiamo all’India nel suo complesso, oltre le divisioni politiche – sommati agli abitanti della Cina e dell’Asia centrale sono quasi metà della popolazione mondiale).

Fra tante chiacchiere sul bene e sul male della “globalità” è preoccupante che una così grande parte del genere umano sia privata di uno strumento di comunicazione e di conoscenza cui ha il diritto (oltre che la capacità tecnica e culturale) di accedere.


ritorno all'inizio

 

loghino.gif (1071 byte) 3. L’internet in Italia


Dall’agosto 2000 gli aggiornamenti sulla situazione dell’internet in Italia, in Europa e nel mondo non sono più in questa rubrica, ma nella sezione dati. Vorrei segnalare che c’è un nuovo aggiornamento per quanto riguarda l’uso della rete in Italia. Inoltre è online una sintesi di un ampio rapporto pubblicato dal Censis nel luglio 2001.

La diffusione dell’internet in Italia continua a crescere – ma sembra esserci un rallentamento nel 2001. Si è praticamente azzerata la crescita nell'uso della rete dal lavoro, mentre continua ad aumentare l'uso “domestico”.

Si nota che il 70 % delle famiglie dotate di un computer in casa ha una connessione all’internet, ma solo il 64 % delle persone che usano un computer si collega alla rete e solo il 28 % lo fa abitualmente.

Siamo lontani da una “soglia di saturazione” ma c’è perplessità e disinteresse. Un po’ influisce sull’opinione generale la frequenza di notizie “catastrofiche” in televisione e sui giornali; ma lo scarso interesse è dovuto soprattutto alla discutibile qualità dei servizi offerti online.

È interessante rilevare che – mentre la rete continua a diffondersi in sempre più ampie categorie economiche, sociali e culturali – l’uso dell’internet è più frequente da parte delle persone che usano più spesso altre risorse, come libri e giornali. Cosa abbastanza ovvia – ma in contrasto con alcune opinioni diffuse.


ritorno all'inizio

 

loghino.gif (1071 byte) 4. Leggi e norme (perseverare diabolicum)


Si è già constatato molte volte che una scarsa comprensione di che cosa sia l’internet, e una disordinata volontà di “legiferare” in modo confuso, inutile e spesso nocivo, è “trasversale” agli schieramenti politici e culturali. Un po’ dovunque – e specialmente in Italia. Infatti sono cambiati il parlamento e il governo, ma l’andazzo è lo stesso.

Non solo i legislatori e i poteri esecutivi trascurano quelle evidenti necessità di uso di risorse aperte di cui ci si occupa attivamente in Brasile, in Messico, in Francia, in Germania (e, benché troppo debolmente, nell’Unione Europea) – come si è detto nell’editoriale di questo numero. Ma continuano anche le tendenze repressive e la moltiplicazione dei proverbiali “lacci le lacciuoli”. Eccone (fra tanti) alcuni esempi recenti.

Anche se con meno rimbombo delle precedenti “crociate”, (e mentre si conferma il fallimento delle strombazzate indagini che fanno di tutto fuorché scoprire i veri colpevoli) continuano le aggressioni contro l’internet con il pretesto della “pedofilia”. Compreso un ennesimo mal concepito disegno di legge che era stato proposto nella precedente legislatura e viene riproposto, tale e quale, nella nuova.

Si sono perse le tracce della sciagurata legge sull’editoria che aveva suscitato giustificata indignazione nell’aprile 2001. Seguita da dichiarazioni “rassicuranti” ma vaghe dell’allora governo – e poi da un tenebroso silenzio in cui manca ogni chiarimento applicativo sul vero significato di quella confusa norma.

Per quanto riguarda l’intricata vicenda del cosiddetto “diritto d’autore” (che sarebbe più chiaro definire esasperata accentuazione dei privilegi delle grandi organizzazioni di musica, cinema e software) si va, ancora una volta, di male in peggio. Un decreto deliberato dal consiglio dei ministri l’11 luglio 2001, e pubblicato il 22 agosto, conferma l’assurda disposizione del “bollino” Siae. Quell’intricato documento elimina in parte un’assurdità della legge (che imponeva di applicare il “bollino” direttamente sui supporti, rendendo inservibili i cd) e pare che elimini l’obbligo nel caso del software (così accontentando le grandi lobby che si erano accorte di essersi tirate la zappa sui piedi). Ma in sostanza conferma una disposizione insensata, rendendola ancora più macchinosa e complessa – a danno di tutti e nell’esclusivo interesse di quell’inutile e corrotto baraccone burocratico che è la Siae.

Eccetera...

Ma non doveva essere questo il paese in cui tutti (l’attuale maggioranza politica e quella precedente, i grandi poteri economici e di informazione, i soloni dell’economia e della cultura, eccetera) hanno il dichiarato obiettivo di semplificare la burocrazia, ridurre vincoli e pastoie, snellire le procedure, eliminare norme superflue o sbagliate e sovrastrutture inutili?

 

 

ritorno all'inizio ritorno all'indice

 


Homepage Gandalf
home