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(340 byte) Il Mercante in Rete
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Marketing nei new media e nelle tecnologie elettroniche


di Giancarlo Livraghi

gian@gandalf.it

 

Numero 21 - 15 Giugno 1998

  1. Editoriale: Il navigatore inesistente
  2. La libreria in rete
  3. La bizzarra vicenda della "certificazione"
  4. "Piccole imprese" e incomunicabilità
  5. Perché l'internet mette a disagio le imprese
  6. Il problema della scuola
  7. L'inquinamento in rete
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1. Editoriale: Il navigatore inesistente
Sembra incredibile, ma molti osservatori (comprese persone non del tutto inesperte della rete) pensano che esista un "pubblico dell’internet" descrivibile come un gruppo sociale o culturale omogeneo. Qualcuno addirittura parla di "popolo della rete", quando anche altri presunti "popoli" non sono quelle mandrie passive, ripetitive e disciplinate su cui amerebbero poter contare i partiti politici e che tanto piacciono agli analisti di tendenza più grossolani e superficiali.

Esistono, è vero, categorie con caratteristiche omogenee e ripetitive: per esempio quelle collettività in cui si incarnano le persone quando si calano nel ruolo di "tifosi" sportivi o di groupie fanaticamente seguaci di un gruppo rock o di un personaggio dello spettacolo. Ma non c’è alcun motivo di pensare che l’uso della rete sia un comportamento di quel genere.

Qualche anno fa c’era qualcosa che poteva somigliare a una "comunità della rete". Le persone che si collegavano erano poche e c’era quasi un senso di fratellanza, di appartenenza, come nel mondo dei radioamatori. C’erano anche allora molte differenze di opinione e di tendenza; alcuni più attenti agli aspetti tecnici, altri ai valori culturali. Ma il fatto di essere in rete ci faceva sentire un po’ "speciali". Questa cultura non è scomparsa, ma ovviamente si diluisce man mano che l’uso della rete si allarga e si avvicina a essere "un modo come un altro" di comunicare.

Soprattutto, aumenta la diversità. Solo chi non conosce la rete, o non ne capisce bene la struttura, può immaginare che sia un mondo omogeneo. Ognuno ne fa un uso diverso. Spero fra qualche tempo di avere dati che permettano una sia pure grossolana "quantificazione" delle tendenze. Ma una cosa è chiara: il modo meno frequente e diffuso di usare le rete è la "navigazione" fine a se stessa, l’aggirarsi per siti e per liste alla ricerca di non si sa che. I cosiddetti "navigatori" sono una piccola minoranza; o sono comportamenti effimeri, più frequenti fra chi si è appena affacciato alla rete e vuole un po’ sperimentare il nuovo giocattolo – ma presto o tardi si stanca.

C’è chi usa la rete per lavoro (sembra che sia la maggioranza degli "utenti") e se ne serve solo per pochi, specifici usi relativi alla sua attività professionale. C’è chi usa esclusivamente, o quasi, la posta elettronica. C’è chi segue alcuni siti, o alcune liste e quando ha identificato quali corrispondono ai suoi interessi si limita a quelle. C’è chi non mette mai le mani su un computer ma ha una segretaria, un assistente o un consulente (o qualcuno in famiglia, o una persona amica) che raccoglie in rete le cose interessanti, le stampa e glie le consegna. E non sono pochi gli "utenti" che hanno un collegamento ma non lo usano quasi mai: se ne servono occasionalmente se e quando hanno bisogno di cercare o fare qualcosa. Ci sono molti nuovi utenti che si collegano per curiosità, senza sapere che cosa faranno (e spesso abbandonano l’impresa dopo poco tempo). Ma ce ne sono sempre di più che fanno un uso preciso della rete, mirato alle loro esigenze, e si limitano fondamentalmente a quello.

Più aumenta il numero, meno diventa rilevante e interessante per chi immagina di poter raggiungere, in qualsiasi modo, "tutte" le persone collegate, o anche solo una percentuale rilevante del totale.

Questo fatto ha provocato, e continuerà a provocare, delusioni per chi immagina di poter usare la rete come un mezzo tradizionale. Ma se lo si capisce non è un problema e può diventare una risorsa. Ciò che manca, nei sistemi tradizionali di comunicazione, non sono i mezzi "a largo raggio" in grado di raggiungere un pubblico esteso e indifferenziato. Mancano invece gli strumenti mirati per dialogare con chi ha specifici interessi. La rete, se usata bene, può fare proprio ciò per cui gli altri mezzi sono inadatti: questo è il suo punto di forza.

Per fare un esempio di attualità, a una libreria online non interessa se una certa persona si collega tutti i giorni o una volta al mese. Ciò che conta è che quando vuole cercare un libro, o informarsi sulle novità librarie, sappia dove andare. Non scherzo se dico che il pubblico potenziale per un servizio online veramente utile può comprendere persone che non hanno un collegamento, ma sono sufficientemente interessate per dire a un amico o a un collega di lavoro "Per piacere colleghiamoci a quel sito e vediamo che cosa c’è di nuovo" oppure "Non trovo la tal cosa, aiutami a cercarla".

Insomma è enormemente più importante sapere quali sono le persone interessate a un argomento specifico, e come raggiungerle, che pensare a un mondo indifferenziato di immaginari "navigatori".

Ciò significa che farsi conoscere può spesso richiedere percorsi diversi dalla comunicazione in rete. Il fattore più importante è sempre il "passaparola": un cliente soddisfatto o un visitatore abituale molto interessato ai contenuti lo racconta agli amici, con straordinaria efficienza e selettività, perchÈ sa chi serve avere quell’informazione. Ma ci sono infiniti altri strumenti, tanto più efficaci quanto più mirati. Se vendessi palline da golf, darei più importanza a un cartello in un golf club che a mille banner; se avessi un sito in cui si parla di bocce, cercherei di farlo conoscere alle bocciofile. Se vendessi un prodotto alimentare o dietetico e volessi indurre i consumatori più attenti a visitare il sito in cui ne descrivo i fattori nutrizionali, suggerisco ricette, eccetera, metterei l’indirizzo bene in evidenza sulle confezioni (questo è uno dei tanti possibili esempi di come farsi conoscere senza spendere una lira).

Insomma credo che meno pensiamo alla rete come una massa grigia e indistinta (o, peggio, come una setta di maniaci della "navigazione" web) e più puntiamo su chi è interessato ai nostri specifici contenuti, più occasioni avremo di successo in rete: sia che il nostro obiettivo sia commerciale, culturale o di pubblica utilità.

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2. La libreria in rete
Avevo promesso di approfondire il tema della nuova libreria italiana in rete. Nel numero di luglio di Web Marketing Tools uscirà un’intervista con il Dott. Mauro Zerbini, consigliere delegato di Internet Bookshop Italia. Ecco intanto una sintesi dei fatti più importanti.

Considero questo caso particolarmente rilevante perchè il settore librario è uno dei naturali apripista che possono diffondere l’uso della rete per acquistare prodotti o servizi. Cinque o sei iniziative altrettanto valide e utili, che diffondessero in pratica l’abitudine di fare acquisti online, potrebbero far nascere un mercato che finora, in Italia, è quasi inesistente. Si aiuterebbero a vicenda e ne potrebbe nascere un "circolo virtuoso" molto più utile ed efficace di tante generiche dissertazioni.

La nascita di Internet Bookshop Italia è il frutto di una lunga maturazione. Informazioni Editoriali è un’impresa che dal 1985 si occupa di sistemi informativi nel settore librario, nota per il suo sito Alice che dal 1996 è il punto di riferimento online per tutto ciò che riguarda i libri in Italia. Cominciarono a ragionare su questa possibilità nel dicembre 1995 con Internet Bookshop di Oxford, una grossa libreria online nata più o meno contemporaneamente all’americana Amazon Books. L’anno scorso decisero che i tempi erano maturi e costituirono una società, di cui Informazioni Editoriali ha la maggioranza. Bookshop Italia è basata sui metodi e sulle tecnologie maturate con l’esperienza del socio inglese.

La loro strategia (secondo me molto giusta) è non fare sconti: vendere i libri al prezzo di copertina e puntare soprattutto sulla qualità del servizio. Non si considerano in concorrenza con le librerie tradizionali. Si aspettano che non più del 5 per cento dei visitatori faccia acquisti online; gli altri si informano e poi comprano in libreria. Puntano soprattutto sulla capacità di offrire una gamma molto più ampia di quella che può avere una libreria "fisica" e quindi essere lo strumento per acquistare quei libri che non si trovano facilmente nella libreria più vicina.

Naturalmente considerano importanti i mercati di esportazione, cioè gli italiani all’estero e gli stranieri che capiscono l’italiano. Pensano che circa il 30 per cento delle loro vendite sarà fuori dall’Italia.

Per ora vendono solo libri in italiano; per acquistare libri in inglese occorre collegarsi al sito di Oxford. Ma in futuro integreranno il servizio e prevedono che l’offerta si estenda anche ad altre lingue, tramite accordi con diverse librerie online europee. Oltre ai libri in diverse lingue, pensano di estendere la loro attività anche a un altro settore "congeniale": la musica.

Il loro sistema di consegna in Italia si basa su una combinazione corriere-posta. Il corriere consegna fino al nodo postale più vicino alla destinazione, così scavalcano la parte più complessa e lenta del servizio postale; poi da lì consegna il postino. Ritengono che questa sia la più efficiente combinazione costo-velocità.

BenchÈ gran parte della stampa e degli altri grandi mezzi di informazione non abbia ancora dato la notizia (il che mi sembra un po’ grottesco, visto lo spazio che dedicano a notizie assai meno interessanti a proposito dell’internet) l’inizio sembra molto promettente. Dopo una settimana online avevano già 50 ordini al giorno.

Due piccole ombre in un quadro che mi sembra molto positivo. Il sito è un po’ lento; pare che ci siano alcuni problemi di software in fase di sistemazione. L’opinione di Internet Bookshop è che non influisca su questo problema una pesantezza grafica; ma su questo non sono molto d’accordo. Per fare solo un piccolo esempio, la gif del loro marchio "pesa" 18 Kbyte; con pochi semplici accorgimenti e senza perdite di qualità potrebbe essere ridotta a un quarto di quella dimensione. Sembra un nonnulla... ma quattro o cinque immagini di quel peso, con le velocità reali disponibili alla maggior parte delle persone che si collegano, possono costare più di in minuto di attesa; e un minuto davanti a una pagina vuota sul monitor è un tempo interminabile.

Un’altra cosa che mi suscita molti dubbi è la scelta di "imporre" ai visitatori di accettare i cookie. Un obbligo non necessario (il mondo è pieno di siti che gestiscono "carrelli" senza somministrare biscottini) e irritante per gli utenti più esperti; per di più manca una spiegazione chiara del motivo per cui questi cookie debbano essere necessari.

Spero che queste imperfezioni siano corrette. Ma sono dettagli nel quadro di un’iniziativa intelligente, utile e (mi sembra) molto bene impostata. Rimango convinto che la nascita di questa grande libreria italiana online sia un’ottima notizia e mi auguro che abbia un grande successo.

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3. La bizzarra vicenda della "certificazione"
Da un po’ di tempo si parla sempre più insistentemente di "certificazione" dei siti web. A questo "oggetto misterioso" di non facile definizione è stato addirittura già dato un nome: Audiweb. Chiaramente ispirato all’Auditel e ad altre analoghe strutture di verifica (come Audipress e Audiradio).

Non entro nel tema delle complessità tecniche (che sono molte e rilevanti) perchÈ allungherei enormemente questa breve nota – e perchÈ immagino che se ne discuterà ad nauseam nei prossimi mesi. Mi sembra più importante ragionare un po’ sulle premesse e sull’utilità reale di uno strumento del genere.

La logica elementare (spesso carente quando si parla di nuove tecnologie e di rete) ci dice che prima di stabilire come si vuole misurare qualcosa occorrerebbe avere le idee chiare su che cos’è. Ci vollero decenni per arrivare a misurazioni credibili dei mezzi tradizionali: la stampa (molto prima che le ricerche sulla lettura si ribattezzassero Audipress), poi la televisione, poi la radio. E ancora se ne discute. Eppure fin dall’inizio non potevano esserci dubbi su che cos’è un giornale, una rivista, un’emittente radiofonica o televisiva.

Che cosa sia e come funzioni la rete è qualcosa che ancora non sappiamo bene, perchÈ (nelle dimensioni di cui parliamo oggi) è un fenomeno molto giovane – e in continuo (in gran parte imprevedibile) cambiamento. In particolare ne sanno poco proprio quelle grandi organizzazioni che oggi decidono di volerla "misurare"; cosa che non sempre confessano volentieri ma che ammettono con più sincerità e frequenza di quanto ci si potrebbe aspettare.

Se fosse un discorso serio (e secondo me non lo è) ci sarebbe comunque un’obiezione. La rete è, per sua natura, internazionale. Che senso ha cercare un criterio locale di verifica che non corrisponda a qualcosa di analogo su scala globale, o almeno nei mercati più importanti?

I motivi fondamentali per cui non credo al valore reale della "certificazione" (oltre alle molte incertezze tecniche) sono due.

Il primo è che rientra in un quadro più ampio, di definizione della rete come un mezzo "integrativo" o addirittura "sostitutivo" dei mezzi pubblicitari tradizionali. Ho già spiegato in questa rubrica perchÈ questa è la strada sbagliata, perchÈ non è efficiente usare uno strumento   per ciò cui meno è adatto, insomma perchÈ un uso efficace della rete deve partire da una concezione completamente diversa. Poco più avanti ritornerò su questo tema, da un altro punto di vista.

Il secondo è che non si capisce come un sistema complesso e mutevole come la rete possa essere efficacemente misurato e "certificato". Se voglio fare pubblicità su un giornale, ovviamente mi interessa sapere quante copie distribuisce e chi lo legge (non solo quante persone, ma anche quali). Perciò mi serve avere una certificazione della diffusione e ricerche sulla lettura (che diano anche classificazioni demografiche e, cosa un po’ più ardua e discutibile, "psicografiche"). Lo stesso vale per la televisione o per la radio. Ma in tutti questi casi le unità da valutare sono poche (le testate o emittenti minori sfuggono ai controlli) e i comportamenti sono relativamente stabili. Ma davanti a un sistema dove il numero dei siti è enorme e in continuo mutamento la ricerca di sistemi di misura affidabili è a dir poco prematura, se non del tutto inutile.

Se uso la rete per stabilire relazioni non ho alcun bisogno di misure o "certificazioni" esterne. Sono in grado di misurare la qualità e quantità di traffico che viene prodotta e l’origine da cui proviene. Ho modi semplici per valutare gli effetti di ogni mia iniziativa e calcolarne con precisione costi e risultati.

Ma allora perchÈ ci si affanna tanto intorno alla certificazione?

Il primo motivo è che alcuni grossi interessi (cioè alcuni grandi "siti" e le loro concessionarie, che nonostante le mirabolanti promesse stanno ottenendo risultati molto inferiori alle aspettative) tentano di vendere la comunicazione in rete per quello che non è: pura e semplice pubblicità di "immagine". E poichÈ il prezzo è definito in base al numero di "contatti" cercano di offrire qualche garanzia che quei "contatti" siano davvero avvenuti.

Il secondo motivo è "il cerimoniale del numero". Un fenomeno molto noto, discusso, analizzato e spesso dovutamente ridicolizzato, ma difficilmente eliminabile. Nelle grandi organizzazioni ogni cosa deve avere un numero. Soprattutto i "quadri intermedi" sentono il bisogno di "numeri" che giustifichino le loro scelte e li mettano al riparo dalle critiche. Che quei numeri abbiano un significato davvero rilevante non è fondamentale; ciò che conta è che ci siano e che siano in qualche modo "certificati" da una voce esterna e riconosciuta come autorevole.

Da tutto questo nasce la volontà dei grandi venditori di avere "numeri" per appoggiare le loro argomentazioni; dei compratori di avere "numeri" per dare certezza apparente alle loro scelte; dei venditori di qualsiasi metodo o macchina "certificatrice" di accaparrarsi un mercato che può diventare lucroso; e delle "autorità costituite", siano enti pubblici o associazioni private, di essere custodi dello standard.

Si spiega così il tanto affannarsi intorno a qualcosa di abbastanza indefinibile. L’atteggiamento di molti è "non importa sapere che cosa sia, importa solo che sia io a controllarlo".

Avremo dunque un "Audiweb"? E' presto per dirlo. Gli interessi in gioco sono potenti, e contro ogni logica ed esigenza concreta potrebbero farlo succedere. Ma la cosa è così complessa e discutibile che potrebbe arenarsi lungo la strada. Se mai si realizzerà andrà probabilmente incontro ad alcuni ostacoli, che non è difficile prevedere. Ma nel frattempo potrebbe fare una certa quantità di danno. Potrebbe contribuire alla falsa concezione, già fin troppo imperversante, dell’internet come "mezzo pubblicitario". Potrebbe favorire i "grossi siti" a scapito dei piccoli (spesso molto più interessanti per attività "mirate") che avrebbero probabilmente difficoltà ad accollarsi il peso e il costo della "certificazione". Alla fine dei giochi prevarrà probabilmente il buon senso, ma intanto questa bagarre potrebbe creare un ennesimo diversivo e infittire la già pesante cortina di fumo che rende invisibili o incomprensibili i valori reali della rete.

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4. "Piccole imprese" e incomunicabilità
Il 10 e 11 giugno si è svolto a Milano un convegno, indetto da associazioni di non poco "peso". La Confindustria, l’UPA (che riunisce i grandi utenti di pubblicità) e la Federazione Italiana della Comunicazione (che comprende le grandi associazioni della pubblicità e della comunicazione d’impresa); con la collaborazione di Telecom Italia, Sipra, Publitalia, Eutelsat, Il Sole 24 Ore. Fra i relatori i rappresentanti di molte imprese famose e di grandi organizzazioni, fa cui IBM, ICE, RAI... annunciato, ma non presente, il ministro delle comunicazioni Antonio Maccanico. Il tema era Le piccole e medie imprese: la sfida della comunicazione globale.

Il vuoto era impressionante. Nella grande platea del Teatro Manzoni erano sparse circa 50 persone, di cui pochissime rappresentavano il mondo cui l’evento era rivolto: le Piccole e Medie Imprese. Potrebbe essere solo un aneddoto curioso se non si collocasse in un quadro generale piuttosto preoccupante.

Fra i più di 30 interventi ce n’erano due che, secondo me, meritano di essere citati.

Il prof. Umberto Collesei, professore ordinario di marketing all’Università di Venezia e direttore del master di comunicazione di Ca’ Foscari, ha messo in evidenza alcuni fatti rilevanti, basati sulla sua diretta conoscenza del mondo delle PMI. La rapida evoluzione dei prodotti nel tempo – dice Collesei – induce l’impresa a ricercare valori, che si mantengano relativamente stabili, da comunicare; e quindi affermare la propria identità. Si tratta cioè di passare da comunicazione prodotto a comunicazione impresa, ma questa transizione non è facile. Le PMI non hanno le competenze interne per gestire la comunicazione e si rivolgono malvolentieri a specialisti esterni; che a loro volta hanno competenze più adatte alle medio-grandi imprese e scarse capacità di capire le esigenze delle PMI. Gli strumenti di comunicazione utilizzabili dalle PMI sono diversi da quelli della grande impresa e perciò si devono creare nuove figure professionali con competenze di marketing e comunicazione, esterna ed interna, capaci di gestire gli strumenti delle PMI; il che non è facile. Insomma c’è un vuoto culturale. Si tratta di gestire la comunicazione come un sistema in cui tutti i fattori, interni ed esterni, devono convergere in modo sinergico. L’impreparazione è profonda, da parte di tutti: delle imprese, delle organizzazioni professionali, dei mezzi pubblicitari e di comunicazione. Occorre creare una nuova cultura, ma non si sa dove siano le risorse didattiche e professionali in grado di formarla.

Il prof. Roberto Nelli, ricercatore di economia e tecnica della comunicazione aziendale all’Università Cattolica di Milano, ha rilevato che nelle PMI è percepita, più di quanto si creda, l’importanza dell’identità di impresa e della comunicazionee tali atteggiamenti possono far ipotizzare un’apertura ai valori della cultura della comunicazione aziendale ma occorre distinguere due ambiti: quello della comunicazione commerciale, esplicitamente considerato, ma con un peso relativamente ridotto e quello della comunicazione implicitamente, e spesso inconsapevolmente, posta in essere attraverso l’ordinario agire dell’impresa. Insomma l’impresa istintivamente percepisce che tutto il suo agire ha valori di comunicazione; ma manca una definizione esplicita e chiara di strategia e metodologia. Perciò sarebbe necessario identificare e proporre modalità semplici e idonee di pianificazione strategica della comunicazione della PMI a livello globale e quindi, di seguito, ottimizzare le modalità di impiego degli strumenti di comunicazione e la loro qualità tecnica. Il Prof. Nelli ha proposto un’autocritica per chi fa formazione, propone modelli e diffonde cultura – e finora non lo ha saputo fare in modo adatto alle esigenze e prospettive delle Piccole e Medie Imprese.

Da altre osservazioni emerge chiaramente il fatto che non sempre è capito con chiarezza il concetto di comunicazione, troppo spesso inteso semplicemente come pubblicità, che dalle PMI (come da una troppo diffusa opinione generale) viene di solito intesa solo come pubblicità televisiva; un mezzo che, nella sua attuale struttura "generalista", è quasi sempre inaccessibile alle PMI e lo diventa ancora di più con l’attuale ripresa degli investimenti pubblicitari che rendono ancora più alte le soglie di entrata.

L’obiettivo annunciato, non solo in questo convegno ma anche in altre occasioni, era mettere in evidenza come la comunicazione debba diventare, molto più di prima, uno strumento strategico per le PMI, che possono e devono usare tutte le possibilità offerte dal sistema di comunicazione per diventare "multinazionali tascabili" e operare con successo nel mercato globale.

Ciò che emerge un po’ timidamente dalle due relazioni citate, ma in generale sembra non capito, è che tutto ciò implica una profonda ridefinizione del concetto di comunicazione.

La comunicazione d’impresa non può e non deve essere definita nell’area ristretta della comunicazione commerciale; soprattutto non può e non deve essere concepita banalmente come "pubblicità" (cui eventualmente si aggiungono altre attività di comunicazione, come le relazioni pubbliche, le promozioni e il direct marketing, definite e usate come discipline separate) vista come qualcosa di estraneo che si sovrappone alla normale attività dell’impresa invece di essere uno strumento della sua identità. Questo problema fondamentale non riguarda solo le piccole e medie imprese, ma anche molte delle grandi; che in parte suppliscono alla mancanza di strategie forti con un’abbondanza di mezzi che permette, almeno in apparenza, di dominare con il volume della comunicazione anche quando manca una vera coerenza di strategie e comportamenti.

Il problema è profondo e grave. La falsa cultura dell’apparenza, della cosiddetta "immagine" come elemento cosmetico e non come identità strutturale, è un danno per tutti; ma diventa un ostacolo particolarmente pesante per quelle imprese "piccole e medie" che non possono permettersi di rimediare alla mancanza di idee e di metodo con la pura forza del volume di voce.

Il paradosso arriva all’assurdo quando si tratta delle nuove tecnologie. » evidente che la comunicazione interattiva e selettiva, la forza delle comunità, le reti di comunicazione ("internet") eccetera sono uno strumento fondamentale per aprire alle "piccole e medie imprese" la capacità di competere più efficacemente su scala mondiale. Ma il modo in cui queste risorse vengono proposte, con un accento eccessivo sulle tecnologie e sulle apparenze (e ora con una grossolana banalizzazione che tenta di ricondurre la rete al concetto più superficiale e meno efficiente di "pubblicità di immagine") trasforma le distanze culturali in un baratro insormontabile.

Incontri, convegni, dibattiti e dissertazioni stanno cominciando a mettere in evidenza il problema. Ciò che non fanno è proporre valide soluzioni. Queste soluzioni esistono, e quando dalla teoria si passa alla pratica si rivelano meno complesse di quello che sembrano. Ma per trovarle occorre partire da quella rivoluzione copernicana di cui si parlava in questa rubrica sei mesi fa.

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5. Perchè l'internet mette a disagio le imprese
Nell’imperversare di convegni, incontri, seminari e congressi sulla comunicazione commerciale in rete si ripetono all’infinito le stesse banalità; ma ogni tanto si sentono voci più fresche e concrete, che portano qualche segnale interessante.

Una di queste è l’intervento di Roberto Venturini (McCann&Interactive) a un convegno su "pubblicità in Internet" il 2 giugno. La sua tesi è che sviluppare e implementare un’attività di comunicazione su Internet in modo efficace può avere conseguenze destabilizzanti per l’azienda.

Rileva giustamente Venturini che nella comunicazione in rete (ancor più che nella comunicazione in generale) tutto è integrato; non ha senso isolare i banner dal contesto. L’impresa si chiede qual è l’oggetto della comunicazione. » il mio prodotto? O è il mio sito? Il banner deve funzionare come una manchette su un quotidiano, dando un sintetico messaggio sul mio prodotto – o deve far scattare l’interesse a visitare il mio sito? Se l’obiettivo è il primo, ci sono mezzi più efficaci di Internet...

Descrive poi l’imbarazzo dell’impresa davanti alla proposta (sbagliata quanto diffusa) di intendere la comunicazione in rete come diffusione di banner (o più in generale come "pubblicità"). La banalità di questa impostazione mette l’impresa davanti a una serie di problemi.

La pianificazione

Non ci sono dati! Qual è il costo-contatto? Quanti GRP vale? Devo ragionare in modo diverso, devo ricominciare a imparare.

Quanto tempo resto "on air"?

Compro contatti? Allora se pianifico un sito trafficato mi si brucia tutta la campagna in un paio si settimane... Devo rivedere il mio modo di valutare le pianificazioni.

Il target media

Conosco il mio target. Ho i dati socio-demografici. Come faccio a selezionare i siti? Non ho un profilo dei lettori! La mia esperienza non mi può guidare.

Le "testate": come sceglierle?

Vado per grandi numeri (motori di ricerca, siti ad alto traffico...) = mass marketing. Oppure vado a segmentare più di fino (affinità del sito al mio target, affinità del sito al mio messaggio). Ma si può/deve scegliere tra un numero enorme di siti!

L’analisi dei dati

Clickthrough? Hit? Registrazione? Raccogliere i dati di fruizione non è difficile, ma come dargli un senso operativo?

Messaggi focalizzati

Internet mi offre l’opportunità del "narrowcasting" = segmentazione molto mirata del target. Opportunità di messaggi sviluppati ad hoc per target focalizzati. Molto lavoro, piccoli numeri (anche se mi dicono che l’efficacia di conversione non è male...). Ma non è che pensavo di fare pubblicità e mi ritrovo a fare direct marketing?

La creatività

L’efficacia di ogni soggetto è limitata nel tempo (da nostre ricerche negli USA, se il banner non viene cliccato alla prima o alla seconda visione non verrà più cliccato); necessità di cambiare rapidamente i soggetti. Necessità (opportunità) di sviluppare soggetti focalizzati per target: non ha molto senso sviluppare il solito paio di soggetti sostenuti da ingenti investimenti... Un sacco di lavoro in più rispetto alla comunicazione tradizionale, per di più on-going...

Non solo i banner

Occorre pensare anche ad altre soluzioni... web sponsoring... integrazione con il sito ospite e i suoi contenuti...co-marketing con i siti leader... realizzazione o "sponsorizzazione" di eventi... Ulteriore carico di progettualità e di lavoro per un’attività che in quasi tutte le imprese, specialmente le più grandi, ha un ruolo marginale, secondario o sperimentale.

Insomma, osserva Venturini, l’impresa si trova subito a rimpiangere i bei tempi in cui la pubblicità era intrusiva; era una gara tra il break e il telecomando (probabilità di esposizione al mio messaggio inversamente proporzionale ai riflessi dell’audience)... la pubblicità cambiava due volte all’anno... Quei tempi, naturalmente, non sono passati; le imprese che hanno le risorse (soprattutto economiche) per farlo continuano e continueranno a usare i mezzi tradizionali. Ma se si affacciano alla rete si trovano nei brutti tempi in cui... tutto è in tempo reale, nulla è statico; la comunicazione è on demand, la sceglie il consumatore, elusivo e imprevedibile; mi confronto con un incredibile rumore di fondo (milioni di siti a disposizione). Devo essere ancora più bravo, non solo devo dare al consumatore un motivo per comprare il mio prodotto, devo dargli un motivo per guardare la mia pubblicità.

Mi sembra un’interessante descrizione di quanto complesso, snervante e inconcludente si presenti l’utilizzo della rete quando si commette l’errore fondamentale: cercare di ridurla al ruolo dei mezzi pubblicitari tradizionali.

Il problema si può riassumere nella frase di non so quale autore americano: On-line advertising is a nuisance, until the moment you need it. Then it becomes Customer Service. Che può essere approssimativamente tradotto in "La pubblicità online è solo un fastidio, fino a quando ti accorgi che ne hai bisogno: ma a quel punto scopri che si tratta di servizio ai clienti".

Insomma l’uso della rete assume un aspetto molto più comprensibile e rilevante se invece di pensarlo come una variante della pubblicità tradizionale lo si concepisce come servizio.

Osserva Venturini che anche se qualcuno fa un buon lavoro e riesce a far affluire lettori sul sito di un' impresa, a quel punto l’azienda è nuda, perchÈ mancano i contenuti e i servizi. Tutti gli sforzi fatti per creare "traffico" si traducono in nulla – o più probabilmente in un danno, per la delusione che provano le persone e le imprese quando finalmente arrivano sul sito. Non si ripeterà mai abbastanza che l’atteggiamento di chi sta attivamente cercando qualcosa è molto diverso da quello di chi passivamente guarda la televisione, ascolta la radio o si imbatte in un annuncio mentre sta sfogliando un giornale.

Quando finalmente si è capito che non si tratta di pubblicità, ma di servizio (anche la pubblicità tradizionale se fatta bene dovrebbe essere un servizio... ma quello è un altro discorso) si è fatto un sostanziale passo avanti. Ma i problemi non sono finiti.

Occorre chiedersi: chi in azienda si intende davvero di Internet? Chi sa come funziona, come si deve usare? Chi ne conosce limiti e differenze? Come permettere a tutte le persone/funzioni coinvolte di contribuire efficacemente? O almeno di capire i problemi e le opportunità? O almeno di non essere dei colli di bottiglia? Ci si trova nella necessità di dare informazioni su prodotto e azienda, a un forte livello di dettaglio. Completezza (non possiamo più trincerarci dietro al limite dei 30"). Il lettore in rete è esigente; non ha fatto la fatica di venire da noi per accontentarsi di qualche immagine o discorso generico. Avete qualcosa da nascondermi? Non avete niente altro da dirmi? Un altro, grosso problema è la necessità di lavoro continuativo, di perenne aggiornamento. E infine il valore fondamentale, l’interattività: è necessario mettere i visitatori in grado di avere un reale dialogo con l’azienda.

La conclusione è chiara. Pensare alla rete come "mezzo pubblicitario" non è solo un errore e una dispersione di risorse, ma un compito comunque ostico e complesso, con scarse prospettive di risultati e serie possibilità di farsi un danno. Pensare alla rete come uno strumento di servizio può essere un fattore importante di successo, ma le imprese sono impreparate e non è facile sviluppare la cultura necessaria. Dice Venturini:

Il vero problema di fare un sito Internet è che occorre starci dietro. Un compito difficile e pesante, proprio adesso che lo scenario competitivo è sempre più duro... mi trovo addosso forti pressioni da parte del management, in termini di tempi e costi... ho così tanto da fare... il personale dell’azienda è ridotto all’osso...

Sembra una cosa piuttosto complessa... è tutta roba nuova, un campo inesplorato (almeno per l’Italia) e non si può nemmeno copiare dalle esperienze degli altri... mi sembra un impegno gravoso...

Forse è meglio lasciar perdere. Entrare in questo mondo, nella maniera giusta, implica profondi mutamenti nel modo di fare business, di pensare alle strategie, obbliga a destrutturare i processi decisionali. Coinvolge tutte le aree aziendali, obbliga a definire nuovi modi di lavorare in team. Implica (almeno nel breve periodo) un grosso carico di lavoro; diventa un progetto che assorbe tempo e risorse, che richiede attenzione e impegno.

Purtroppo... non siamo soli sul mercato. Internet è uno strumento globale. Internet è uno strumento "democratico" con basse barriere d’accesso. Il mio consumatore è ora alla portata di tutti, dalla multinazionale al sottoscalista... Là fuori c’è gente affamata, pronta a tutto pur di rubarci il mercato, pronta a dare di più al consumatore, pronta a offrire più servizio, pronta a usare Internet al meglio. Ci alzano di continuo la barra degli standard.

E se Internet diventa davvero uno strumento chiave di comunicazione? E se i miei concorrenti attuali – o altri concorrenti di cui non ho nemmeno mai sentito parlare – si impadroniscono del mezzo prima di me? E se riescono a "servire" meglio il mio consumatore? ... Il mio vantaggio competitivo resterà tale per sempre? ... Scivolano le barriere dell’ingresso; piccoli operatori possono entrare a operare sul mio target, a costi contenuti; si incrementa la concorrenza; arrivano da tutte le parti!

Mi sembra un’efficace sintesi dello stato di diffidenza, se non di angoscia, diffuso nelle imprese quando si parla di rete. La tentazione di banalizzare tutto, riducendo la rete al ruolo di "un altro mezzo pubblicitario", è grande; ma queste finzioni, o tentativi di evadere il vero problema (e trascurare le vere occasioni che la rete offre) possono fare danni gravi. Sono palliativi... come lo struzzo che mette la testa nella sabbia, o come chi cerca di "occultare" un’ulcera gastrica con qualche analgesico invece di curarla. La fortuna, per chi finora non ha approfondito questa risorsa (cioè quasi tutti) è che la minaccia non è immediata: c’è ancora il tempo di imparare e sperimentare. Ma anche se le previsioni miracolistiche sono irreali il tempo non è molto... la rete, anche da noi, sta crescendo; e sul mercato internazionale (in quei pochi ma importanti paesi in cui è diffusa) sta assumendo un ruolo e una dimensione che non si può più trascurare. » venuto il momento di pensarci seriamente. Ma, per citare ancora una volta Roberto Venturini, fare un sito "tanto per esserci" può equivalere a mettere in piazza la nostra incapacità a fare meglio. Occorre sviluppare una cultura che manca, nuovi metodi, nuovi meccanismi decisionali e impegni di risorse che sono "trasversali" a tutte le strutture dell’impresa. La comunicazione/marketing su Internet non è solo una questione di strumenti. » cultura aziendale diversa. » nuova organizzazione. » rapidità.

Insomma una "tegola sulla testa", antipatica e dolorosa, per chi vuol restare nella cuccia (non sempre calda e comoda... ma almeno conosciuta) dei vecchi modi di ragionare e lavorare; ma un’occasione molto interessante per chi ha reali capacità di innovazione – ed è in grado di proporre autentici valori di qualità e servizio.

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6. Il problema della scuola
Nel Corriere della Sera dell’8 giugno compariva questo grafico (di cui non era citata la fonte).

Numero di studenti per computer nelle scuole pubbliche

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Siamo molto lontani dalla soluzione del grave problema della generazione perduta di cui si parlava quattro mesi fa. E non si tratta solo di dotazioni tecniche o di fatti quantitativi. La nostra scuola è afflitta anche da gravi problemi di metodo. L’uso dell’informatica e della telematica è concentrato prevalentemente nelle scuole tecniche, mentre dovrebbe essere considerato un patrimonio necessario per tutte le scuole e tutte le discipline; l’insegnamento è prevalentemente tecnico (spesso inutilmente astruso e scostante) mentre si dovrebbero diffondere i valori culturali della rete. Questi problemi non affliggono solo il sistema scolastico, ma quasi tutta l’impostazione nella cultura delle imprese, nei corsi di formazione, perfino nella "promozione" della rete da parte di quasi tutti gli operatori del settore – culturali e commerciali, pubblici e privati. Mancano le premesse culturali su cui costruire le competenze di cui ci sarà sempre più bisogno se vorremo affrontare seriamente il problema della comunicazione in rete.

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7. L'inquinamento in rete
Ritorno volentieri a un autore che ho già citato in altre occasioni: Gerry McGovern, che su NUA  il 1ƒ giugno ha pubblicato un articolo   intitolato Digital Pollution. Eccone una traduzione.

C’è un pesante inquinamento nella rete.

Come specie, abbiamo una tendenza allo spreco. Molto di ciò che produciamo mette al primo posto la nostra comodità, più che l’ambiente o una "sostenibilità" di lungo periodo. Di solito ci occupiamo dell’inquinamento solo quando comincia a fare danni.

L’energia nucleare è un buon esempio di quanto siamo imprudenti in fatto di inquinamento. Abbiamo creato residui che resteranno radioattivi per migliaia di anni e non sappiamo dove metterli. Il Mare d’Irlanda è già pieno di radioattività e British Nuclear Fuels continua a buttarci materiali radioattivi tutti i giorni.

Il Pakistan e l’India si comportano come bambini viziati. "Ho armi nucleari" sogghigna l’India e il Pakistan risponde "adesso le ho anch’io". Naturalmente il Pakistan e l’India non fanno altro che imitare gli altri bambini viziati che da molto tempo si vantano dei loro giocattoli atomici.

Ricordo il mio primo lavoro. Era il 1984 e la società aveva appena comprato un computer. Non aveva un disco rigido. Si poteva comprare un hard disk di 5 megabyte ma costava un occhio della testa. 5 megabyte sembravano una capacità esagerata. Riuscivamo a gestire la contabilità dell’azienda usando dischetti floppy da 5,5 pollici.

Quanto sono cambiate le cose. Parliamo di gigabyte per i dischi rigidi. E la cosa buffa è che ci manca lo spazio! Per quanto grandi siano le dimensioni del ripostiglio, troviamo il modo di riempirlo.

Adesso abbiamo questi software enormi, che sono uno spreco... Ma anche noi sprechiamo spazio e risorse. Nel 1984 quando usavo un word processor non creavo versioni multiple dello stesso documento perchÈ non avevo lo spazio. Stavo più attento e me la cavavo bene. Ripulivo regolarmente i dischetti per togliere ciò che non mi serviva più.

Adesso il mio hard disk è un disastro. Pieno di cose inutili. C’è così tanto spazio che sto perdendo la capacità e l’interesse di decidere che cosa mi serve tenere e che cosa no. » più facile tenere tutto.

Oggi sull’internet ci sono 400 milioni di pagine. Dicono che nel 2000 ce ne saranno 800 milioni. Quante sono utili? Quante sono spazzatura?

Pensate per un attimo al vostro sito web. Ci sono angoli che non controllate da molto tempo? Ci sono informazioni che non interessano più ai vostri clienti?

Gestire un sito di qualità vuol dire ripulire l’informazione esistente almeno quanto aggiungere cose nuove.

Quando l’informazione è vecchia marcisce. Diventa inquinante. Come gli scarichi delle automobili ci inquinano i polmoni, i fumi dell’informazione ci inquinano la mente. Non troviamo ciò che ci serve perchÈ lo smog nasconde la qualità.

Se non ci occupiamo ora dell’inquinamento digitale, diventerà un impedimento serio per la stabilità di lungo termine della rete. Per cominciare, ognuno di noi potrebbe badare al suo pezzo dell’ambiente, cioè (1) mettere online solo informazioni di vera qualità e (2) rivedere regolarmente il suo sito e togliere la spazzatura.

 

 

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