gassa I nodi della rete
di Giancarlo Livraghi
settembre 2007

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(migliore come testo stampabile)


L’e-mail non muore
(ma può essere usata male)



La cosiddetta “posta elettronica” esiste da più di trent’anni. C’erano vari modi di usarla anche prima che ci fosse una diffusa disponibilità dell’internet. Benché in Italia il numero di persone in rete sia, ancora oggi, più basso che in altri paesi (vedi dati italiani) l’e-mail è un sistema largamente noto – e abituale per milioni di persone. Che sia in crisi, o in declino, è assai poco credibile. Ma i problemi ci sono – e si tratta di capire come risolverli.

Un curioso fenomeno nei giornali, e in generale nei “mezzi di informazione”, è che improvvisamente qualcosa (tutt’altro che nuovo) diventa “notizia”. Se ne parla per qualche giorno con esagerata intensità, poi cade nel dimenticatoio dove giaceva da anni, fino alla prossima occasione in cui qualcuno (chissà quando) riporterà l’argomento all’effimero e inconcludente “onore della cronaca”.

Di “morte dell’e-mail” si era parlato, in alcuni ambienti internazionali, due o tre anni fa. Quelle chiacchiere si erano spente in poco tempo e senza particolare diffusione. Chissà perché luttuose “notizie” di quel genere sono comparse improvvisamente, nel settembre 2007, su alcuni giornali.


Lo spam non è una zanzara

Qual è la malattia letale, il pestilenziale contagio? Ovviamente è lo spam. Se ne parla come se fosse una zanzara, portatrice di infezione, improvvisamente immigrata da un altro continente. Si “dimentica” che il problema è noto, e chiaramente diagnosticato, fin dalle origini della rete.

Non solo lo si è trascurato per decenni, ma è stato perversamente incoraggiato da tanti che insistevano su un cosiddetto “e-mail marketing” che non è mai stato un nuovo e utile strumento di comunicazione, ma era solo un rozzo travestimento per contrabbandare lo spam. Non solo i “grandi sistemi” di informazione, di potere e di formazione culturale hanno ignorato, o sottovalutato, l’epidemia, ma molto è stato fatto per aggravarla.

Qualcuno ora parla di “guerra perduta” (non solo dell’e-mail, ma di tutta l’internet) e dice, sconsolatamente, «dobbiamo arrenderci». Ma in realtà la sconfitta è di chi, incautamente, due anni fa aveva promesso la vittoria, illudendosi di poterla ottenere con “armi” sbagliate. È inutile perdere tempo con quel genere di fantasie. Questa non è una guerra. È una malattita contagiosa. Va curata come tale, non combattuta con bombe e lanciafiamme, come se fosse un esercito nemico.

Aggiungere, oggi, un “allarme” improvviso, disordinato e confuso serve solo a complicare inutilmente la situazione. La zanzara c’è ed è fastidiosa. L’infezione c’è e può fare danni. Ma il rimedio non è un estemporaneo e inutile schiamazzo – né un tardivo e malinconico “piangere sul latte versato”. Togliamo dal capezzale le lugubri prefiche – e i cattivi medici che hanno sbagliato diagnosi e terapie. E vediamo come le malattie (che esistono, ma non sono letali) si possano curare e prevenire.

Qualche infezione è inevitabile. Ma prima di pensare a terapie aggressive (o a palliativi di scarsa efficacia) è importante capire se il sistema immunitario sta funzionando – e che cosa si può fare per renderlo più forte. Se lo spam continua a diffondersi è soprattutto perché ci sono ancora persone che non hanno capito qual è la difesa fondamentale: ignorare tutte quelle proposte e non rispondere mai.

Un fenomeno curioso (ma non sorprendente) è che le mal concepite regole sulla privacy e sulla protezione dei dati personali sono diventate uno strumento di spam. Per esempio le “richieste di autorizzazione a inviare” non sono solo un modo per fare spamming aggirando la legge, ma anche un trucco per “catturare” indirizzi attivi. (E ci sono anche i diffusi maneggi con cui le persone sono costrette, o indotte da manipolazioni burocratiche, ad “autorizzare” l’utilizzo dei loro “dati personali”). Ma è raro che gli enti di controllo e i “mezzi di informazione” si occupino di questi problemi.

Quando si tratta di manipolazioni che favoriscono qualche potere, o qualche interesse economico, anche se è a danno dei cittadini, la regola dominante è quella della vecchia canzoncina francese: tout va très bien, Madame la Marquise.

Ovviamente lo spam, oltre a intasare la corrispondenza con quantità esorbitanti di posta inutile e indesiderabile, è il veicolo per ogni sorta di truffe. Quanto è stato fatto, finora, per spiegare alle persone come evitare quegli inganni? Poco, sporadicamente e in modo inadeguato.


L’irresponsabilità bancaria

Fra tanti esempi... uno merita attenzione per il “distratto” comportamento del sistema bancario. Non è nuovo il problema dei “falsi messaggi”, che fingono di venire da una banca, con cui si pratica il cosiddetto phishing, cioè (in questo caso) la “cattura” di dati riservati che permettono di introdursi nei conti bancari e rubare soldi. Ma l’infezione si è particolarmente estesa in Italia – e, a quanto pare, continua a crescere.

“Puntare il dito” su una sola banca è sbagliato, perché il contagio riguarda tutto il settore. Ma non si può ignorare il fatto che, ormai da parecchi mesi, “Bancoposta” è il più frequentemente afflitto da questa infezione. Si è letto che le Poste Italiane hanno incaricato un’impresa specializzata di cercare i colpevoli, che sono stati trovati e denunciati. Sembrava che così si fosse risolto il problema alla radice. Ma non è vero. Quel genere di spam continua a imperversare.

Siamo inondati di notizie, proposte, sollecitazioni delle banche. Ma in tutto quel fracasso c’è una clamorosa scarsità di informazione e comunicazione su come le persone possano difendersi da abusi e invasività. Qualche occasionale notizia sul fatto che (ovviamente) nessun istituto bancario manda un’e-mail per chiedere dati riservati si limita a quanto necessario per “scaricare responsabilità”.

Occorrerebbe un’informazione molto più estesa, chiara, frequente ed efficace. La sua mancanza (come tanti altri comportamenti) dimostra quanto il sistema bancario, in tutte le sue manifestazioni, sia privo di una reale “cultura di servizio” e insensibile alle reali esigenze dei suoi clienti. Un male, purtroppo, sempre più diffuso anche in altri generi di imprese e di organizzazioni.

Se questo è un esempio particolarmente sgradevole, ovviamente non è l’unico. Ci sono parecchie altre forme di spam che nascondono inganni più insidiosi di un ingombro nella “casella postale” o di un’irritante puntura di zanzara.


L’apologia della truffa

Fra gli imbrogli più diffusi c’è anche, naturalmente, quella variante della classica “truffa all’americana” che promette facili guadagni nella manipolazione di denaro di incerta origine proveniente qualche paese dell’Africa o da qualche altra parte del mondo dove ci sono, notoriamente, fenomeni di violenza e di corruzione. (Vedi La truffa all’africana luglio 2001 Ancora truffe online marzo 2003 Spam e scam giugno 2003). Solo dopo parecchi anni di diffusione di questi (e altri) imbrogli ne è stata data qualche notizia sui giornali e in televisione. Ma ovviamente non è bastato, visto che qualcuno continua a cascarci.

Che talvolta i truffatori abbiano successo è, purtroppo, inevitabile. Il potere della stupidità è onnipresente – e diventa particolarmente pericoloso quando si combina con l’ingordigia. Ma ci sono aggravanti che si potrebbero evitare. In un clima culturale in cui è diffusa l’ammirazione verso i “facili guadagni” e le manipolazioni finanziarie non solo manca un’adeguata informazione su come difendersi, ma c’è anche un (non molto sottinteso) incoraggiamento alla furbizia e all’imbroglio – di cui i furfanti, ovviamente, approfittano (non solo in rete).

Se le truffe sono un problema grave, anche altre forme (meno nocive) di spam sono comunque un ingombro fastidioso. Per mancanza di cura e prevenzione, la piaga è incancrenita. Si tratta di capire come guarirla, o almeno attenuarne gli effetti, senza ricorrere a soluzioni ferocemente chirurgiche.


Come difendersi dallo spam

Quando (con enorme e colpevole ritardo) la “cultura dominante” ha finalmente scoperto che il problema esiste, si è puntato soprattutto sulle difese tecniche. I “filtri antispam” un po’ funzionano. Ma sono inevitabilmente imperfetti. Oltre a individuare solo in parte le fonti di spam, producono “falsi positivi”, cioè cancellano, o segnalano come “sospetti”, anche messaggi di normale comunicazione che il destinatario preferirebbe leggere.

Una difesa “drastica”, ma abbastanza semplice, è cambiare indirizzo. Usare una nuova mailbox e informarne i corrispondenti abituali. Non può avere un effetto “eterno”, ma è probabile che le fabbriche di spam ci mettano qualche anno, o almeno parecchi mesi, a trovare il nuovo indirizzo. (Comunque è sempre meglio evitare di aiutarle frequentando gli ambienti in cui tende a concentrarsi la loro attività).

Purtroppo questa soluzione non è possibile per chi ha un’identità online che non può modificare (per esempio, nel mio caso, un indirizzo e-mail presente non solo in molte pagine di questo sito, e di altri in giro per la rete, ma anche in libri e articoli stampati e in varie sedi in cui non lo posso cambiare).

In situazioni come questa diventa necessario “convivere” con lo spam. Ma, per fortuna, non è difficile ridurne gli effetti. Oltre a qualche “filtro” tecnico, che può aiutare, c’è il fatto che lo spam è abitudinario, perciò è spesso riconoscibile. Molti messaggi “indesiderati” si possono cancellare senza neppure aprirli.

Quando se ne apre uno per sbaglio... che fare? La situazione, a quel punto, è pericolosa. Può bastare una piccola disattenzione per trovarsi trascinati dove non si voleva andare, per essere “invasi” da cose non richieste – o anche contagiati da un virus, se si ha la sfortuna di usare uno di quei sistemi (purtroppo molto diffusi) che sono rischiosamente “permeabili” a quel genere di attacchi.

Sarebbe lungo entrare nei dettagli dei comportamenti più adatti a ridurre il rischio. Ma in sostanza si tratta di “non accettare caramelle dagli sconosciuti” e di impedire, per quanto possibile, ad automatismi incontrollati di somministrarci cose che non avevamo alcuna intenzione di chiedere, né alcun motivo di desiderare.

La vera risorsa è una: l’informazione. Purtroppo è esagerato sperare che, un bel giorno, tutti smettano di rispondere – e che così lo spam si esaurisca per mancanza di risultati. Ma se i fatti fossero spiegati con quella ampiezza e abbondanza con cui si gonfia abitualmente un’infinità di confuse sciocchezze, di chiacchiere inutili e di vaneggianti tecnicismi, ci sarebbero molte più persone in grado di difendersi – e molto meno soddisfazioni per chi si dedica a quella spregevole attività.

Una migliore informazione potrebbe anche ridurre lo spam “alla fonte”, isolando i truffatori e i pasticcioni. Sarebbe utile diffondere fra le imprese, grandi e piccole, una chiara conoscenza del fatto che fare spamming non è solo inutile, è anche autolesionista. E che i “venditori di liste” e “catturatori di indirizzi” sono spesso imbroglioni. Ciò che offrono come “lista selezionata di persone interessate” a un certo argomento è quasi sempre un’accozzaglia di indirizzi qualsiasi, “carpiti” con ogni sorta di trucchi, il cui risultato è solo una moltiplicazione di fastidioso spam.


Le malattie dell’e-mail

Oltre allo spam ci sono varie forme di malware (cioè tecnologie intenzionalmente maligne o stupidamente malfunzionanti) che possono interferire con ogni genere di uso del computer, compresa l’attività online. Ma molte “malattie” dell’e-mail nascono dal modo in cui è usata.

Sarebbero, in gran parte, evitabili se si ricordassero i concetti, definiti da vent’anni, della netiquette. Sono anche cose di cui si è parlato, in queste pagine, anni fa. (Vedi, per esempio, i capitoli 42, 43, 44, 45 e 48 di L’umanità dell’internet). Ma può valer la pena di accennare anche qui ad alcuni dei problemi più diffusi.

  • La fretta.  Si spedisce un messaggio “di corsa”, senza chiedersi se è chiaro. È meglio rileggere prima di spedire. Naturalmente non occorre essere “perfezionisti” in ogni dettaglio. Nella maggior parte della corrispondenza online un piccolo refuso, o un’altra imperfezione di forma, è accettabile (l’importante è che si capisca). Ma se c’è qualcosa che rischia di essere mal capito le conseguenze possono essere preoccupanti. Si può perdere molto più tempo (e buonumore) a districare un malinteso di quanto sarebbe servito a verificare ciò che si era scritto e così a spiegarsi meglio.

  • L’impazienza.  Il fatto che l’e-mail arriva (di solito) in pochi minuti non vuol dire che ci si possa aspettare una risposta immediata. Uno dei vantaggi dell’e-mail è proprio il fatto che ognuno scrive quando vuole, ognuno legge quando preferisce. Non sempre le persone hanno il tempo e la possibilità di rispondere subito.
    Un’altra forma di impazienza ossessiva è quella di sentirsi obbligati alla lettura istantanea (fino al punto di essere disturbati da qualche avviso automatico di “posta in arrivo”) e di rispondere in fretta e furia senza avere avuto il tempo di capire, con il probabile risultato di dover perdere tempo a chiarire i malintesi.

  • L’eccesso di “citazione”.  Il cosiddetto overquoting è favorito, purtroppo, dalle impostazioni automatiche di molti software di gestione della posta. Non è affatto necessario, ed è spesso fastidioso, citare nella risposta l’intero testo di un messaggio ricevuto. La “citazione” può essere, secondo il caso, eliminata del tutto oppure ridotta a poche righe, o poche parole, utili a capire di che cosa si tratta.
    Va evitato, però, anche l’errore opposto: scrivere o rispondere in modo poco chiaro, senza alcuna indicazione di quale sia l’argomento. Anche in questo senso, la fretta è dannosa. Qualche minuto risparmiato scrivendo male può provocare ore o giorni di pasticci e incomprensioni.

  • La prolissità o la sintesi eccessiva.  È opinione diffusa che in rete sia meglio essere brevi. In generale è vero, ma non è un “dato assoluto”: due righe in più per spiegarsi meglio sono preferibili a una brevità indecifrabile. Se è fastidioso ricevere interminabili sproloqui che sarebbero più chiari in un testo corto, è altrettanto sgradevole leggere cose incomprensibili perché manca qualche parola necessaria per capire di che cosa si tratta.

  • I formati complessi.  Molti software di posta propongono by default, cioè come scelta “predefinita”, l’uso di testo in html. Le persone più esperte e consapevoli nell’uso della rete si riconoscono spesso dal fatto che usano “puro testo” (txt – anche definito “testo normale”).
    Il problema dei “formati complessi” non è solo l’ingombro di quantità esorbitanti di “codice”. È più preoccupante il fatto che il “codice invisibile” può contenere “istruzioni” devianti, per errore tecnico o per trucco intenzionale, con conseguenze variabili dal fastidioso al più seriamente pericoloso.
    E quando (come accade spesso a chi non si rende conto di questi problemi) si “inseriscono” parti di testo provenienti da altri file (specialmente se si tratta di testi prodotti con un word processor) il messaggio può avere contenuti “nascosti” (ma visibili a chi sa come fare) che non avevamo alcuna intenzione di mandare a quel destinatario. Le conseguenze, come è facile immaginare, possono essere imbarazzanti.
    (Non scherzo quando dico che qualcuno, scrivendomi su tutt’altro argomento, non si è accorto di avermi mandato nel “testo nascosto” la contabilità della sua azienda – cosa che, nel caso specifico, non era un problema, ma dimostra come si possa diffondere, senza saperlo, ogni sorta di informazioni o di commenti che non si aveva l’intenzione di divulgare).

  • Il gergo.  Varie forme di “gergo” possono essere divertenti, o comunque utili, fra persone che ne condividono la conoscenza. Ma troppo spesso sono usate indiscriminatamente, con il rischio di essere incomprensibili. L’arte di scrivere bene, in modo chiaro ed efficace, è purtroppo in declino in generale, con conseguenze preoccupanti per lo stato della cultura.

    Naturalmente una e-mail non richiede il livello di qualità che sarebbe necessario (ma troppo spesso manca) nella scrittura di un libro. Ma un po’ più di attenzione alla scelta della terminologia, e in generale alla chiarezza, renderebbe i dialoghi (online o non) più gradevoli e più efficaci.

    Una fastidiosa mescolanza di manierismi e abbreviazioni “ereditate” dalla vecchia “corrispondenza commerciale” e di quelle nate dal più recente uso degli sms produce orrori linguistici che è meglio evitare, non solo per un po’ di qualità del linguaggio, che non guasta mai, ma anche per evitare rischi di incomprensibilità.


  • L’anonimato.  Nella tradizione della rete c’è una forte affermazione del “diritto all’anonimato”. Che sia un diritto, è giusto. Che sia un’abitudine, è meno sensato.
    Non è un problema molto diffuso, ma esiste. Naturalmente quando ci scrive una persona che non conosciamo, e che si firma Luigi Rossi, non sappiamo se sia quello il suo vero nome e se invece si chiami Antonio Bianchi. Nella maggior parte dei casi, il problema è più suo che nostro. Ma è abbastanza sconcertante ricevere un messaggio da qualcuno il cui indirizzo è chissachi@nonsodove.boh e che, non per seri motivi di riservatezza, ma per distrazione o abitudine, “dimentica” di metterci una firma. O da qualcuno che usa la mailbox di sua zia, per cui Tullio Tale sembra essere Teresa Talaltra.
    Non si può considerare un obbligo, ma è una cortesia firmare tutto ciò che si scrive (online o non). Preferibilmente con il proprio “vero” nome. Oppure, se proprio lo si desidera, con uno pseudonimo che sia abituale e riconoscibile.

  • L’uso della mailbox aziendale.  Avevo scritto, nove e poi sette anni fa, alcune osservazioni sull’uso di identità “improprie” (Vedi L’uso della mailbox aziendale novembre 1998 e Mailbox, domain, indirizzi; una questione di identità novembre 2000). Gli anni passano, ma il problema rimane (almeno in parte) non risolto.
    Non è questa la sede per approfondire gli aspetti giuridici (come, per esempio, il diritto di un’impresa di verificare la comunicazione aziendale, ma non quella privata – o il non diritto delle persone di usare la “carta intestata” dell’organizzazione in cui lavorano per la propria corrispondenza personale). Ma il fatto è che l’uso di “identità improprie” ci può confondere.
    Che sia per malizia o per errore, non è sensato che un messaggio personale di Pablo Fulano sembri venire dalla sede spagnola di una multinazionale o dal ministero degli esteri del Guatemala.
    (La cosa è complicata anche, non solo online, dal diffuso outsourcing per cui qualcuno che sembra essere nella sede di un’impresa a New York o a Milano si trova in un’organizzazione “subappaltata” in Ruritania – ma quella è un’altra storia).
    In sostanza, varie fonti di confusione si potrebbero evitare se le identità fossero più chiare e trasparenti.

  • Gli allegati ingombranti.  Sembra diventato un po’ meno frequente il caso di chi manda un allegato di tre megabyte in powerpoint per dirci qualcosa che starebbe comodamente in quattro righe di testo. Ma si continuano a usare male gli “allegati”. Utili, quando servono. Ma fastidiosi quando producono non solo ingombro, ma anche percorsi e deviazioni che si potrebbero facilmente evitare.

  • La diffusione esagerata.  Una funzione utile ed efficace dell’e-mail è la facilità di “mandare in copia” lo stesso testo a vari indirizzi. Usata bene, è una buona risorsa. Ma quando si esagera diventa spam. Prima di dare troppa diffusione a qualsiasi cosa, è sempre meglio chiedersi: «ma davvero questo interessa a tutte quelle persone?».

  • Le bufale e le catene.  Fin dalle origini della netiquette si era rilevata la necessità di “rompere le catene”, cioè di bloccare la diffusione di chain letter (“catene di Sant’Antonio”) che spesso sono truffe, ma anche quando partono con “buone intenzioni” funzionano male e producono più disturbi e pasticci che risultati utili.
    E non si tratta solo di quelle. Le “bufale” o false notizie sono molte, non solo in rete. Prima di precipitarsi a diffonderle è sempre bene verificare se siano credibili e quale sia, se c’è, il loro reale significato.

  • I messaggi “persi”.  Per fortuna non è frequente che un messaggio si perda in rete. Ma talvolta accade. Purtroppo oggi funziona raramente quell’efficace sistema per cui un dispositivo automatico chiamato daemon ci segnalava se l’indirizzo indicato non era raggiungibile o se la consegna era ritardata. Se è giusto non “spazientirsi” troppo presto quando non arriva una risposta, è bene anche non arrabbiarsi prima di aver controllato se il nostro messaggio è arrivato a destinazione.

  • I messaggi “falsi”.  Chi non ha molta pratica della rete può essere sorpreso, o confuso, quando riceve un avviso di segnalazione di un virus che non ha – o una risposta (di solito “automatica”) a un messaggio che non ha mai spedito.
    Si tratta di maligni worm (virus “replicanti”) che “catturano” gli elenchi di indirizzi nei software di posta e poi mandano in giro messaggi che “fingono” di arrivare da quelle origini. Cioè il messaggio “finto” non nasce dal nostro computer, ma da quello di qualcun altro, che ha “in memoria” il nostro indirizzo. E la macchina contagiata è la sua, non la nostra.
    Certo, è fastidioso sapere che possono esserci in giro vari spam “apparentemente” mandati da noi. Ma almeno cerchiamo di non preoccuparci troppo quando riceviamo segnalazioni di un virus da cui non siamo contagiati – e di non arrabbiarci con un innocente quando ci arriva spam che “sembra” spedito da qualcuno che di quell’invadenza è del tutto ignaro.
    La diffusione di “antivirus” efficaci ha un po’ ridotto la frequenza di questi problemi, ma non sembra che li abbia del tutto eliminati.

  • Gli automatismi.  Le malefatte degli “automatismi” sono infinite. Non solo è opportuno imparare a distinguere i messaggi (o le risposte) che ci arrivano da una macchina e non da una persona, ma è prudente anche controllare se qualcosa “si insinua” nella posta che mandiamo.
    Per esempio alcuni servizi “gratuiti” aggiungono testi “promozionali”. Si può pensare che la cosa sia accettabile, in cambio del fatto che ci danno un servizio senza farcelo pagare. Ma accade che chi lo riceve pensi che qualcosa sia proposto da noi e non da un “automatismo” di cui siamo ignari – e questo può provocare ogni sorta di malintesi. È meglio perciò, se possibile, eliminare quelle “intrusioni” – o comunque verificare che cosa stiamo trasmettendo senza saperlo.
    Ci sono anche altri generi di “aggiunte automatiche” forse non nocive, ma comunque inutilmente ingombranti. Come nel caso di un messaggio personale mandato da una mailbox aziendale in cui è aggiunta una lunga e astrusa nota di “protezione legale”. O altre “code” o tag di varia specie che è inutile continuare a ripetere e che spesso hanno poco a che fare con l’argomento di cui ci stiamo occupando.


Questi sono solo alcuni dei problemi. Elencarli tutti sarebbe troppo lungo. Ma la sostanza si può riassumere in due concetti fondamentali. Saper ascoltare, cioè capire le cose dal punto di vista dell’altra persona. E “mettersi nei panni degli altri”, cioè scegliere gli argomenti e il modo in cui li trattiamo non secondo le nostre prospettive e priorità, ma come è più adatto alle percezioni e agli interessi di chi ci legge.

Non è solo umana cortesia. È anche fondamentale buon senso. In ogni forma di comunicazione.

L’e-mail non è moribonda, né ha alcuna malattia “terminale”. Ma soffre di alcuni malanni, che sarebbero curabili se non si stessero sbagliando le terapie. Potrebbe migliorare molto se fosse usata meglio. E non illudiamoci che i problemi siano solo nella “posta elettronica”. Guasti e infezioni sono diffuse anche in altre forme di informazione e comunicazione, dai mass media alle conversazioni personali.

La “cultura del comunicare” è un elemento essenziale, purtroppo trascurato, in tutto il tessuto della società civile e delle relazioni umane.

(Nessuno, in questa materia come in ogni cosa, può avere la pretesa di “sapere tutto”. Anche per chi ha più esperienza, vale il concetto che non si finisce mai di imparare).





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