la strategia


11. Come vogliamo essere percepiti



a. Posizionamento

b. Quota di mente

c. “Come siamo percepiti” e
    “come vogliamo essere percepiti”





Tutto il metodo di definizione della strategia fa perno intorno alla risposta che diamo a due semplici domande: “come siamo percepiti” dal consumatore nel nostro target group (o in ciascuno dei segmenti se ci rivolgiamo a più di uno); e “come vogliamo essere percepiti”.

Questo punto è strettamente collegato con il concetto di immagine di marca e con altri due concetti che è utile richiamare in questa sede: il posizionamento e la quota di mente.

Esaminiamo brevemente questi due concetti.

 

a. Posizionamento   (positioning)

Su questo tema esiste una letteratura altrettanto vasta che sull’immagine di marca; esistono anche sottili, e non sempre concretamente utili, dibattiti sui due metodi di definizione.

Basti qui dire che il “posizionamento” è il “luogo” che la marca occupa nella mente del consumatore: quanto è più preciso e differenziato rispetto ad altri, tanto è più forte. Un fenomeno rilevante è il fatto che ogni posizionamento forte tende per riflesso a spostare quelli altrui; e che l’occupazione della “strada maestra” ha il vantaggio in più di relegare gli altri in un ruolo gregario o in “nicchie” specialistiche ristrette. Mi sembra utile ricordare qui che il concetto di “strada maestra” non è necessariamente generico, cioè può non riguardare “tutto” il mercato; la promessa più rilevante per un segmento specifico può essere molto diversa da quella che interessa al “mercato” in generale.

 

b. Quota di mente   (share of mind)

La “quota di mente” (per contrapposto alla “quota di mercato”) non rappresenta lo spazio occupato dal prodotto rispetto alla quantità consumata sul mercato, ma lo spazio occupato dalla marca nella mente del pubblico. In termini generali, la “quota di mente” potrebbe confondersi con la pura e semplice notorietà della marca; ma questo non è esatto. La “quota di mente” rappresenta la dimensione complessiva della specifica accettazione della marca all’interno della “gerarchia di scelta” del consumatore; è quindi una quota di mercato potenziale.

Se la quota di mercato è più piccola della quota di mente, questo significa che il potenziale della marca è sotto-utilizzato (per esempio perché la distribuzione non rende disponibile il prodotto a tutti quelli che vorrebbero acquistarlo; o perché una parte degli acquisti è deviata da attività promozionali o politiche di prezzo).

Se la quota di mercato è maggiore della quota di mente, è probabile che altri fattori (prezzo, distribuzione, promozione) influiscano in modo importante sulle vendite. Questa può essere una situazione favorevole nel breve periodo, ma potrebbe rivelare una debolezza della marca.

Possiamo quindi dire che la formulazione di “come vogliamo essere percepiti” definisce sia l’immagine di marca, sia il posizionamento che vogliamo; e che la dimensione del target group e il numero di persone all’interno di esso che riusciamo a convertire costituiranno la nostra “quota di mente”.

 

c. “Come siamo percepiti” e
    “Come vogliamo essere percepiti”

L’importanza di questo modello è che la definizione non viene data nel nostro linguaggio e dal punto di vista del fabbricante; ma dal punto di vista del consumatore e nel suo linguaggio.

Dobbiamo scrivere ciò che, secondo noi, il consumatore pensa, con le sue parole. Non in gergo aziendale o pubblicitario, non in lingua accademica, ma nella lingua viva, umana e naturale del consumatore che non parla del prodotto con tutto quel rispetto e quella cerimonia che chi ha speso anni e miliardi per mettere a punto un prodotto crede di doversi aspettare.

Dobbiamo scrivere, sempre con le sue parole, ciò che vogliamo che il consumatore dica dopo che sarà completato l’effetto della nostra campagna (qualche volta subito, più spesso dopo mesi o anni). Non quello che noi diciamo, ma le cose (assai diverse) che il consumatore penserà dopo aver digerito, trasformato e assimilato il nostro messaggio e averlo collocato nel suo sistema percettivo.

Per poter scrivere queste due semplici frasi occorre aver pensato e analizzato a fondo la situazione; conoscere il consumatore; e avere un’ipotesi molto concreta di ciò che pensa. E qui sta l’essenza fondamentale del nostro lavoro.

Il fatto importante, in questo metodo, è che la definizione di “come siamo percepiti” e “come vogliamo essere percepiti” è realistica, espressa non nei termini concettuali della strategia o nel gergo “dotto” delle ricerche, e neppure nel linguaggio della pubblicità, ma nella lingua “vera” delle persone.

Una definizione precisa di “come vogliamo essere percepiti” permette anche di verificare più concretamente, dopo lo svolgimento della campagna, se si sta raggiungendo l’obiettivo – confrontando ciò che le persone dicono con ciò che pensavamo avrebbero detto. Anche le differenze nel modo di esprimersi, quando si verifica a posteriori, possono essere significative e aiutarci a indirizzare meglio la continuazione della campagna.

Questa può essere un’occasione per ripetere che in generale le ricerche sul “ricordo” della pubblicità non ne misurano l’efficacia. Ciò che ci interessa sapere non è se qualcuno ricorda un annuncio, un film o un manifesto, ma se e come la comunicazione (che non mai “solo” pubblicità, ma è sempre il frutto di tutti i rapporti diretti o indiretti delle persone con l’impresa e con ciò che offre sul mercato) ha modificato la sua percezione di un prodotto o di una marca.




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