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Sequestri e altri abusi
– di male in peggio


Giancarlo Livraghi – ottobre 2008


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(migliore come testo stampabile)



Due recenti episodi, che non sono “casi isolati“, mettono di nuovo in evidenza come una serie di storture nelle leggi e nella loro applicazione si traduca in ogni sorta di abusi. Di questi problemi si è già parlato molte volte (vedi l’elenco di alcuni articoli alla fine). La preoccupante constatazione è che non solo continuano, ma si stanno aggravando.

Uno dei due casi è descritto in un recente articolo ed è palesemente (comunque possa essere travestito) un perverso esempio di censura.

L’altro, di cui parliamo qui, sarebbe comico se fosse “unico nel suo genere”. Un sito per lo scambio di musica è stato “sequestrato”, cioè reso inaccessibile. È stato subito trasferito a un altro indirizzo, e poi il sequestro è stato annullato. Cioè non solo non ha subito alcun reale danno, ma ha anche guadagnato notorietà in seguito alla giusta indignazione suscitata, in Italia e altrove, da questo episodio. Gli ispiratori della repressione, cioè le solite lobby delle grandi case discografiche, ne sono uscite – in questo caso e per il momento – sconfitte e scornacchiate. Ma dietro questa buffonesca vicenda si nascondono gravi abusi.

È sempre stata insensata a legge italiana che definisce come “penale” l’uso di software non registrato o (come in questo caso) lo scambio di musica, o video (anche di testi) in violazione del copyright, cioè del cosiddetto “diritto d’autore”. Ed è sempre stato un grave abuso quello di sequestrare computer, server eccetera con una procedura inutile per le indagini e gravemente lesiva non solo di chi è “innocente fino a prova contraria”, ma anche di persone e organizzazioni del tutto estranee ai fatti su cui si svolge l’indagine.

Da alcuni anni questo abuso ha avuto una nuova interpretazione, che bizzarramente estende il concetto di “sequestro” alla cancellazione di siti online – o se, come in questo caso, il sito non è in Italia, a un provvedimento che impone agli internet provider di renderlo inaccessibile (o addirittura, come in questo esempio, di “depistare” il traffico su un altro sito straniero dedicato a perseguitare chi tenta di accedere).

La gravità di questi comportamenti (un po’ troppo facilmente assecondati dai provider, più attenti a difendere i propri interessi che ai diritti dei loro “utenti”) va molto oltre i limiti di ciascun caso specifico. Indica criteri che possono essere estesi alla repressione di ogni opinione o informazione sgradita, come di imprese in concorrenza a quelle favorite dal potere.

Ad abundantiam c’è il fatto che il sito “incriminato”, a quanto pare, non è un luogo di scambio, ma un catalogo delle risorse disponibili. E da questo si potrebbe arrivare all’assurdo di trasformare in censori, spioni e “sceriffi” non solo i provider di connessione, ma anche i motori di ricerca.

Una recente delibera del Parlamento Europeo (24 settembre 2008) «si oppone a misure che permetterebbero un controllo su chi usa l’internet» e specificamente «respinge l’idea che gli internet provider possano filtrare i download e punire i trasgressori di regole sul copyright, così trasformandosi in una specie di polizia online».

Naturalmente si tratterà di capire se e come alle “buone intenzioni” seguiranno i fatti, ma intanto l’Italia, ancora una volta, segna un triste primato nell’essere (chissà perché) la più obbediente alle lobby dei “proprietari di idee” e alle voglie di censura – e la meno attenta nella difesa delle libertà civili. Con una curiosa concordanza fra parti politiche avverse, perché gli abusi continuano a ripetersi, e a peggiorare, indipendentemente da chi è al governo e ha la maggioranza parlamentare.


Una descrizione del caso, e delle sue conseguenze di ordine generale, si trova in questo comunicato diffuso da ALCEI il 7 ottobre 2008.


Caso piratebay.
Il tribunale del riesame di Bergamo annulla il sequestro,
ma fissa principi di diritto pericolosi per i diritti civili.

Il 16 agosto 2008 ALCEI aveva segnalato al Garante dei dati personali le violazioni di legge contenute nel decreto di sequestro preventivo emesso dal Giudice per le indagini preliminari del tribunale di Bergamo.
In quella segnalazione, ALCEI evidenziava:

  • l’estensione sbagliata e strumentale della norma che regola il sequestro preventivo fino a includere anche l’intercettazione di traffico telematico;
  • l’adozione di provvedimenti giudiziari al di fuori della giurisdizione italiana, fondati per di più su nessun concreto reato, ma su ipotesi statistiche formulate su dati privi di valore scientifico;
  • l’abuso della Guardia di finanza di Bergamo che, senza nemmeno l’ordine di un magistrato, ordinava ai fornitori di accesso di indirizzare le richieste di collegamento al sito thepiratebay.org verso un altro sito, localizzato in Inghilterra e gestito da un’associazione afferente all’industria discografica.

In attesa della decisione del Garante dei dati personali (che speriamo arrivi quanto prima), il Tribunale del riesame di Bergamo ha annullato il sequestro disposto dal Giudice per le indagini preliminari con un’ordinanza che – invece di risolvere i problemi che si sono manifestati – ne crea anche di peggiori.

Il Tribunale del riesame di Bergamo, infatti, ha si annullato il sequestro, ma solo sul presupposto – peraltro già evidenziato da ALCEI – che “sequestro” non equivale a “filtraggio del traffico”. Ma si è ben guardato, come avrebbe dovuto, dal valutare la sussistenza della giurisdizione italiana. Omettendo di decidere, il Tribunale di Bergamo ha creato un pericolosissimo precedente che – sulla base del principio di reciprocità – consente a qualsiasi giudice straniero di mettere sotto processo un cittadino italiano, perché pur in assenza di prove certe che un reato sia stato commesso, basta un “calcolo statistico”.

Inoltre, confermando la validità dell’impostazione investigativa del pubblico ministero, ha di fatto affermato la responsabilità automatica dei gestori di motori di ricerca e la possibilità di usare, nelle indagini, dati e informazioni privi di riscontri.

Infine, stabilendo che il decreto di sequestro preventivo, pur sbagliato nella forma, è «astrattamente in linea con la previsione degli artt. 14 e ss. D.L.vo 70/03», da un lato fornisce la “scusa” ai padroni delle idee per invocare l’ennesima modifica repressiva della legge sul diritto d’autore e/o del codice di procedura penale; mentre dall’altro consolida un palese errore di interpretazione della legge, perché configura sui fornitori di accesso l’obbligo di diventare “sceriffi della rete”.

ALCEI esprime forti preoccupazioni per questo ennesimo provvedimento giudiziario che, lungi dal fornire punti di riferimento chiari per cittadini e imprese, aumenta la confusione e la percezione che in materia di diritto d’autore la legge non sia uguale per tutti.




Alcuni altri testi su questo argomento

Pericolo: sequestratori in agguato 1998

Mamma, li Turchi! 1998

Tre facce della barbarie 1998

Sequestri di computer: gli abusi continuano 1999

La mostruosa legge sul diritto d’autore 2000

Avremo nuove ondate di sequestri? 2000

A proposito di copyright 2002

Un’altra legge persecutoria contro l’internet 2004

1994, 2004... “1984” 2004

La sindrome cinese 2006

Scandali e sequestri 2006

Non è solo il “caso Google” 2006

La “frattinizzazione” non è l’unica minaccia 2007

Nove comunicati ALCEI dal 1995 al 2006



Questo articolo è stato pubblicato
anche (in inglese) in edri-gram
il 22 ottobre 2008



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