L’umanità dell’internet
(le vie della rete sono infinite)

omini
di Giancarlo Livraghi
gian@gandalf.it



Capitolo 8
Non vogliamo essere “alfabetizzati”


Da parecchi anni sono infastidito quando sento parlare di “alfabetizzazione”. Un modo superficiale, ostile e protervo di affrontare l’arte difficile di imparare e insegnare. Come se fossimo tutti “analfabeti” da rimettere sui banchi della prima elementare, o “selvaggi” da incantare con ninnoli inutili e da convertire, volenti o nolenti, a una cultura estranea. Questo metodo pedante e disumano di fare “formazione” è uno dei motivi fondamentali del rifiuto, da parte di persone sensate e tutt’altro che“tecnofobe”, di usare un computer o collegarsi alla rete; e, peggio ancora, dell’imbarazzo di chi cerca di “alfabetizzarsi” e si trova a disagio.

Ci sono alcuni libri, scritti da persone molto più competenti di me in materia di tecnologia, che spiegano i motivi dell’incompatibilità fra il software e gli esseri umani. Per esempio c’è quello di Alan Cooper (un esperto programmatore di Silicon Valley) che si intitola The inmates are running the asylum – press’a poco “I matti dirigono il manicomio”. (Un altro libro che spiega perché le tecnologie funzionano così male è The Software Conspiracy di Mark Minasi ).

Ci ricorda che in pratica quasi ogni strumento che usiamo oggi è un computer; racconta come e perché i computer vengono programmati secondo logiche lontane da quelle di chi dovrà usarli, affollati di funzioni inutili ed esageratamente complesse, con risultati spesso bizzarri. Spiega come perfino lui (che è un tecnico) si trovi in difficoltà se usa una sveglia elettronica, ha avuto problemi con l’antifurto della sua automobile e dopo vari infruttuosi tentativi ha rinunciato a programmare il suo videoregistratore. Spiega anche come sia già accaduto che per un malfunzionamento elettronico una nave sia rimasta ferma in mezzo al mare e un’automobile sia rimasta in mezzo alla strada senza alcuna possibilità di farla ripartire.

Dopo aver ampiamente descritto i motivi per cui la cattiva concezione delle tecnologie ci rovina la vita, Alan Cooper parla di literacy. Cioè di “alfabetismo”. Nella logica di chi produce software, gli utenti sono classificati in tre categorie:


Power users

Computer literate users

Naive users


Il cosiddetto power user, ci spiega Cooper, è semplicemente un fanatico. Accetta qualsiasi tecnologia con entusiasmo. Più è complicata e difficile, più si diverte. Considera le astrusità come sfide alla sua capacità di risolverle. Naturalmente è quello che più spesso dialoga con i programmatori e con i produttori di software: così si illudono che una parte significativa del mercato sia formata da persone come queste.

Chi è computer literate (cioè “alfabetizzato”) è una vittima rassegnata. Costretto, per lavoro o per altra necessità, a vivere con le tecnologie così come sono e a subirne la violenza. Dopo tante ferite e irritazioni la sua soglia di resistenza si è alzata; si è abituato a sprecare tempo, a fare cose inutilmente faticose e complesse, a imparare procedure assurde, a vivere e soffrire con una macchina antipatica, scomoda e inefficiente. (Quella che un giorno, stanco delle sue malefatte, ho definito ’O scarrafone – che, come dice il proverbio napoletano, è bello agli occhi della sua mamma, cioè chi concepisce e produce tecnologie; ma non per chi, come noi, è costretto a convivere con quella sgraziata e sgradevole creatura).

Infine il naive user, l’ingenuo e ignorante, disprezzato dai tecnici come “analfabeta”, è una persona ragionevole, che vorrebbe un servizio efficiente senza inutili complicazioni. Ma poiché l’opinione reiterata e diffusa (anche se chi conosce un po’ l’argomento sa quanto è falsa) è perennemente agiografica, e ci sentiamo continuamente ripetere che le tecnologie sono friendly, cioè amichevoli e facili... chi si trova davanti a difficoltà inutili e assurde non si ribella quasi mai. Più spesso si deprime e si sente “colpevole”.

Solo una piccola, inascoltata minoranza (di cui ovviamente faccio parte) considera inaccettabile questa schiavitù. Siamo costretti, in pratica, a recitare la parte degli “alfabetizzati”, arrangiandoci come meglio possiamo per ridurre le macchine all’obbedienza. Siamo, in generale, persone pacifiche e tranquille; non assaltiamo a sassate i negozi di computer o gli uffici delle software house, non facciamo manifestazioni in piazza, non prendiamo ad accettate il nostro computer (anche se spesso ne abbiamo la tentazione). Ma un giorno o l’altro qualcuno dovrà starci a sentire; e se vogliamo che davvero cresca la cultura dell’information technology e della rete dovremmo prima di tutto cercare di mettere le macchine al servizio delle persone – e non trattare le persone come accessori stupidi e “analfabeti”.

Intanto, credo che ognuno di noi debba difendersi, evitando di lasciarsi “imporre” soluzioni tecniche che spesso non corrispondono alle sue esigenze – ed evitando di lasciarsi sedurre da “aggiornamenti” che spesso sono solo complicazioni inutili. In rete, è meglio diffidare da chi ci propone di usare il suo software solo per il privilegio di accedere alle sue informazioni o di vedere che cosa ci offre. E soprattutto non affidarci mai troppo alle tecnologie. L’importante è badare al dialogo, alle relazioni umane, alla “catena di conoscenza” che possiamo stabilire man mano che sviluppiamo la nostra, personale e insostituibile, esperienza della rete.

Soprattutto, non cadiamo mai nella trappola di sentirci incapaci o incompetenti quando qualcosa non funziona. Non siamo noi che dobbiamo “adattarci”. Sono le macchine, i software e i servizi online che devono imparare meglio a rendersi utili e a semplificarci la vita.






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