Il potere della stupidità
Kali


Confucio, Guinizelli, Erasmo
(potere, libertà, stupidità, follia)

Giancarlo Livraghi – agosto 2010

Disponibile anche in pdf
(migliore come testo stampabile)

 
Prego i lettori poco interessati alla storia della letteratura
di non fermarsi al titolo, pensando che questa sia
una meticolosa esegesi di etimologie e significati.
E prego quelli più competenti negli studi umanistici
di perdonarmi per un eccesso di semplicità.
Non sto cercando di scrivere un saggio culturale,
che sarebbe necessariamente molto più lungo.
Si tratta solo di osservazioni su due argomenti:
il problema delle oligarchie e aristocrazie
e l’ambiguo rapporto fra follia e stupidità.



C’è sempre qualcosa da imparare dai commenti dei lettori. Questa volta si tratta di osservazioni pubblicate in spagnolo a proposito di El poder de la estupidez, la recente traduzione di Il potere della stupidità.

Sono due argomenti diversi. (Anche se, in queste materie, tutto è sempre in qualche modo connesso con tutto il resto).


Confucio, Guinizelli e l’aristocrazia

Un breve commento è stato pubblicato il 21 luglio 2010 da Pablo Valenzuela Gras (che ha la cortesia di definire il mio libro “molto interessante per riflettere”). È in cinque lingue: francese, inglese, portoghese, spagnolo e tedesco. Eccolo in italiano.

Per il categorico Confucio, «ci sono solo due cose immutabili nella vita: l’intelligenza degli uomini ben nati e la stupidità dei plebei». Tuttavia, la storia si è incaricata di smentirlo, ameno parzialmente. La proliferazione di idioti che raggiunsero il culmine del potere in virtù solo del lignaggio è una prova più che sufficiente. Probabilmente, il caso più antico di simbiosi fra potere e stupidità accadde quattro secoli prima dell’era cristiana, quando Serse, re di Persia, ordinò che il mare Ellesponto fosse colpito con trecento colpi di frusta e marchiato con ferri roventi per una presunta offesa alla sua imperiale maestà.

Lasciamo da parte un’interpretazione della “fustigazione del mare”. È un fatto? O una leggenda diffusa malignamente dai greci? Serse era impazzito? O stava solo cercando di dimostrare ai suoi spaventati ammiragli che Poseidone e gli altri dei dell’Olimpo non erano invincibili? Chissà. Comunque non mancano esempi più antichi di simbiosi fra potere e stupidità.

Quella che conta è l’aristocratica (quanto dogmatica) arroganza di Confucio – e dei suoi seguaci, che non si chiamano più Mandarini, ma sono ancora ferocemente al potere in Cina. E violente, crudeli autocrazie dominano anche in altre parti del mondo (compreso l’Iran, cioè la Persia).

C’è un’ovvia differenza fra aristocrazia (il potere dei “migliori”) e oligarchia (il potere di “pochi”). Ma il fatto è che anche quando un privilegio è basato, inizialmente, sul merito, è molto frequente che degradi, se non in un sistema dinastico, in altre forme di ingiustificata e sciocca oligarchia. Così si degrada dall’ipotetica saggezza dei “ben nati” di Confucio, o dei filosofi di Platone, alle degenerate cricche prodotte dalla sindrome del potere.

Che cosa c’entra Guido Guinizelli? Pochi, anche in Italia, ricordano chi fosse. Ma in tutto il mondo è largamente noto un altro protagonista dello stesso movimento culturale: Dante Alighieri. Il “dolce stil novo” non era solo una scuola poetica. Appartiene a tutto il gruppo, ma è attribuito specificamente a una poesia di Guinizelli, il cambiamento di significato di una parola.

“Gentile”, dal latino gens, voleva dire “di alto lignaggio”. Come nel caso della sdegnosa e arrogante domanda di Farinata degli Uberti a Dante nel decimo canto dell’Inferno: «chi fur li maggior tui?».

Il nuovo significato di gentile, che è rimasto stabilmente nella lingua, nasce con la rivoluzionaria affermazione che il “cuor gentile” è di chi così pensa e si comporta. Non di chi è “aristocratico” per nascita. La nobiltà è cultura, cortesia e sensibilità, non privilegio dinastico.

La rivoluzione culturale degli “stilnovisti” (non solo in Toscana, né solo in Italia) non fu la prima (né l’ultima) del suo genere nella storia dell’umanità. E passarono cinque secoli prima che cominciasse a prendere forma nello sviluppo delle democrazie moderne. Oggi, in teoria, l’uguaglianza di tutti è il “credo” della comunità internazionale. Ma fra il dire e il fare... in tante cose, purtroppo, stiamo facendo quello che Umberto Eco chiama, giustamente, “il passo del gambero”.

Visto che sto citando Dante... andiamo al primo canto del Purgatorio. Catone Uticense. «Libertà vo cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta». Sono orribilmente tante, ancora oggi, le persone che muoiono perché cercano o difendono la libertà. O, anche senza ribellarsi, sono vittime della sua mancanza.

Se oggi è prevalente, in molte situazioni, la “plutocrazia”, cioè il potere del denaro, non mancano altre forme di potere repressivo (come, per esempio, il controllo e la centralizzazione dell’informazione). Il multimillenario contrasto fra oppressione e libertà, fra prepotenza e uguaglianza, è tutt’altro che risolto.

Quanto ai privilegi “dinastici”, per quanto libero e “ugualitario” possa essere il sistema, è inevitabile che qualcuno nasca in una situazione più favorevole di altri. Non sarebbe un problema se fosse più diffusa la voglia e la capacità di condividere. Ma troppo spesso i ricchi sono avari. Anche quando non si tratta di soldi, ma di potere o di conoscenza. O di “rango“ per consuetudine o circostanza. Egoismo ed egotismo amano i privilegi, mal sopportano che si diluiscano quando si “concede” ad altri di condividerli.

Mi scuso per un esempio personale, ma è certo un vantaggio per me essere nato e cresciuto in una casa piena di libri e in un ambiente in cui si mescolavano culture e lingue diverse. Ma non mi è mai venuto in mente di farne un “privilegio”. Una delle poche cose per cui sono “contento di me” è che ho sempre fatto tutto il possibile per condividere tutto ciò che ho imparato – e continuo a farlo in tutti i modi possibili, tutte le volte che ne ho l’occasione. Con risultati, spesso, molto interessanti.

Il bello è che non è “altruismo”. Dal dialogo, quando c’è la voglia di capirsi e la capacità di ascoltare, c’è sempre la possibilità di imparare. Non è solo arrogante, è anche molto stupido, chi crede che la condivisione di conoscenza ed esperienza possa essere “a senso unico”. Si impara sempre, da tutto e da tutti. C’è sempre qualcosa che qualcun altro sa meglio di noi – o una prospettiva diversa da quella a cui siamo abituati.

È necessario, ma non basta, che la libertà di pensiero, di comunicazione e di informazione sia un diritto di tutti. Anche quando l’abbiamo, dobbiamo saperla usare con l’incessante coltivazione del dubbio e un’insaziabile curiosità.


Erasmo, stupidità e follia

Uno dei problemi nel ragionare sulla stupidità è che spesso qualcuno la confonde con la follia. E ad abundantiam il concetto di “follia” è tutt’altro che semplice e chiaro.

Molti hanno sentito parlare dell’Elogio di Erasmo da Rotterdam. Pochi l’hanno letto. E devo confessare che sono fra quelli che hanno qualche difficoltà a capirlo. Quando l’editore del mio libro in spagnolo ha scritto nella presentazione «Mentre si compiono cinquecento anni dall’ elogio della follia di Erasmo...» avevo qualche perplessità. Se è un “elogio della follia”, che cosa c’entra con la stupidità? Ma sto cominciando a chiedermi se il mio dubbio fosse sensato. Forse quella scelta dell’editore è più ragionevole di come mi sembrava.

A farmi ripensare, è stata un’altra recensione spagnola. Di Juan Carlos Cubeiro, il 6 agosto 2010. Comincia proprio parlando di Erasmo. E dice: «l’Elogio della follia si dovrebbe più appropriatamente chiamare Elogio della stoltezza o Elogio della stupidità».

Geert Geertsz, noto in tutto il mondo come Erasmo da Rotterdam, era un umanista – e anche un sostenitore della riforma luterana contro la teologia cattolica. Il suo Elogio è palesemente ironico. La Follia parla in prima persona e si vanta del suo valore. Ma è ragionevole pensare che Erasmo intendesse il contrario – e nel personaggio identificasse l’arroganza dell’oscurantismo e il dogmatismo della filosofia medioevale.

Tuttavia può accadere che si interpreti il tema in senso inverso. La “follia” può meritare un autentico elogio se è il coraggio di “osare”, di uscire dagli schemi, di lasciarsi “prendere per matto” quando si imbocca un percorso diverso dall’usuale.

È sbagliato capire lo stesso testo in modi diversi? Forse, se abbiamo il compito di interpretare correttamente l’autore. Ma quando un lettore non è impegnato in un ruolo specifico di studio, è libero di percepire ed elaborare come meglio gli piace.

È solo una sottigliezza esegetica? No. A parte il fatto che si tratta di un libro famoso e spesso citato (non sempre a proposito) può valer la pena di aggiungere qualche osservazione, sul tema in generale, a quelle che ci sono già nel mio libro (per esempio, ma non solo, nel capitolo 28).

C’è sempre stato, in molte culture diverse, un certo rispetto per la follia. Perché in ciò che sembra “folle” si può nascondere il genio – o anche, più modestamente, un’idea che sembra bizzarra, ma in realtà è stimolante.

Perfino la stupidità può essere meno stupida di quello che sembra, specialmente quando è la verifica (consapevole o non) di un dubbio – o un tentativo, apparentemente goffo, di capire qualcosa. (“Adesso faccio una domanda stupida” è una delle trappole più pericolose in un dialogo o in un dibattito. Nella maggior parte dei casi, più che stupida è insidiosa).

Insomma... è frequente che dello stesso testo, o concetto, o esperienza, si possano dare interpretazioni diverse. Può essere giusto e utile. A condizione che nessuno si ostini a insistere sulla “sua” opinione senza badare alla possibilità che in quelle di altri ci sia qualcosa di interessante.

Purtroppo è impossibile verificare “tutto” nell’immensità dello “scibile” e del discutibile. Non basterebbero mille vite. Ma con un po’ di allenamento si può sviluppare un istinto, come il fiuto di un cane da tartufi, che ci aiuta a scoprire una “perla” anche quando è nascosta in qualcosa che non somiglia a un’ostrica.




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