Il potere della stupidità
Kali
Capitolo 21


Il problema dell’idolatria


Stiamo precipitando nell’idolatria? Se lo chiedeva Umberto Eco sull’Espresso del 20 maggio 2004. Una sua energica (e ben motivata) stroncatura del truculento film di Mel Gibson sulla crocifissione aveva scatenato un prevedibile dibattito, in cui era emerso un fatto preoccupante.

Molti non sapevano distinguere tra il film, cioè il modo in cui la storia era raccontata, e il fatto in sé. Non capivano la differenza fra il Nazareno e l’attore che ne recitava la parte, fra una crudele realtà e la sua rappresentazione scenica.

Se si trattasse solo di quel film... potrebbe essere un’insolita deformazione percettiva. Ma, come rileva Umberto Eco, è un fenomeno molto più esteso. Un suo studente gli aveva detto: «Forse dobbiamo rivalutare gli iconoclasti».

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Il dibattito è antico. Nell’ottavo secolo la rappresentazione di immagini sacre era stata vietata nell’impero bizantino, mentre poi la chiesa romana l’aveva consentita, a condizione che non si trasformasse in idolatria.

Il problema è reale. Ancora oggi assistiamo a ogni sorta di comportamenti in cui l’adorazione è rivolta a un oggetto (una statua, un’immagine, un simbolo, un amuleto) invece che a ciò che intende rappresentare. Ma il fenomeno va osservato anche da un altro punto di vista, indipendentemente da ogni culto religioso o da varie forme di superstizione. Umberto Eco ci propone «una riflessione sull’atteggiamento dell’uomo moderno nei confronti del mondo mediatico, che non viene più avvertito come rappresentazione (fedele o distorta) delle cose, ma come la Cosa Stessa. Che è la forma laica che assume oggi l’idolatria».

Cioè la realtà non esiste, conta solo la sua rappresentazione. Il problema non è semplice – e merita qualche approfondimento.

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Solo una piccola parte delle cose che esistono o che accadono può essere percepita direttamente. E anche quando “vediamo con i nostri occhi” non sempre siamo in grado di capire il significato di ciò che ci sembra di vedere. Ci sono, comunque, ampi spazi di interpretazione – e per gran parte delle cose che pensiamo di sapere dobbiamo basarci su ciò che ci dice qualcun altro.

Questo pone, alla base di ogni filosofia, il Problema della Conoscenza. E nella quotidianità della vita e dell’informazione ci mette nella necessità di cercare di capire come stanno le cose al di là dei modi diversi, e spesso contrastanti, in cui ci arriva un’informazione o una notizia. Con il perenne rischio di non capire bene – o di confondere la narrazione o rappresentazione di un fatto con ciò che realmente è accaduto o sta accadendo.

È già un problema serio che le nostre percezioni siano spesso condizionate da abitudini, preconcetti, cliché e banalizzazioni. E che ci sia una preoccupante “omogeneizzazione” in tutti i sistemi di (cosiddetta) informazione. Ma che l’immagine prenda il posto del fatto è una distorsione in più.

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C’è sempre stata, anche prima dei dibattiti sull’iconografia, una certa confusione fra immagine e realtà. Ma ci sono fenomeni caratteristici del tempo in cui viviamo.

Un bufalo dipinto sulla parete di una caverna era un’operad’arte, cioè una rappresentazione – anche un rito magico e un codice di appartenenza. Ma nessun cavernicolo confondeva l’immagine o il totem con il bufalo in carne e ossa, che stava come preda e come minaccia poco lontano dalla sua caverna.

Oggi la situazione è molto diversa. Non solo perché “assistiamo” quotidianamente a eventi lontani che ci è difficile verificare direttamente.

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Anche in un sistema strutturalmente ricco di informazioni non verificabili ci sono percezioni tattili e ambientali che ci aiutano a distinguere.

Se leggiamo un libro o un giornale abbiamo la nozione fisica della differenza fra la carta che teniamo in mano e le cose che qualcuno ci racconta o ci spiega. Anche quando, oltre a leggere, vediamo immagini è difficile che un disegno o una fotografia siano percepiti come “la cosa” anziché una sua riproduzione.

Se andiamo a teatro o al cinema c’è un’altrettanto concreta separazione fra spettacolo e spettatori. Possiamo partecipare con intensa emozione a ciò che ascoltiamo e vediamo, ma rimane il fatto che il pubblico è seduto in sala, mentre gli attori sono sul palcoscenico o su uno schermo.

Il caso segnalato da Umberto Eco ci fa pensare che, almeno in alcune persone, la sindrome abbia radici così profonde da influenzare anche il modo in cui si percepisce un film al cinema.

Con i mezzi “audiovisivi”, da quando ce li abbiamo in casa, la situazione è cambiata. Già con la radio c’erano distorsioni percettive. Le soap opera radiofoniche, progenitrici delle sitcom o teleromanzi di oggi, erano vissute un po’ meno come spettacolo rappresentato, un po’ più come ascoltare una conversazione in casa dei vicini.

C’è anche la famosa vicenda dell’invasione dei marziani sceneggiata per radio da Orson Welles nel 1938 in base a un noto romanzo di Herbert George Wells – e da molti interpretata come un pericolo reale (una grande guerra stava per scoppiare davvero, ma gli aggressori non venivano da Marte).

Questo fenomeno, ovviamente, si è molto accentuato con la televisione. E ha raggiunto livelli estremi (o forse riusciranno a inventare qualcosa di ancora peggiore?) con i cosiddetti reality show, che nulla hanno di reale.

Dieter Hildebrandt, un presentatore televisivo tedesco, dice: «Crediamo solo a ciò che vediamo. Perciò, da quando c’è la televisione, crediamo a tutto».

Accade anche il contrario – cioè che il reale sembri falso. Già nel 1969 si era constatato che alcuni non credevano allo sbarco sulla luna. Le riprese dirette dallo spazio diffuse in televisione erano, necessariamente, mescolate con simulazioni. Questo aveva provocato una confusione percettiva. Specialmente fra le categorie socialmente deboli o emarginate negli Stati Uniti, o altrove ostili alla potenza americana, si era diffusa l’opinione che fosse un falso, un’invenzione propagandistica.

Anche se non siamo totalmente sprofondati nel precipizio dell’idolatria, cioè di un completo rovesciamento dell’essere e apparire, corriamo continuamente il rischio di avere percezioni distorte che ci fanno credere l’incredibile o negare l’evidenza.

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Vorrei ribadire “a scanso di equivoci” che non ho alcuna antipatia preconcetta per la televisione. Usata bene, è un mezzo di straordinaria qualità. E potrebbe evolversi in modi da parecchi anni tecnicamente possibili, ma non ancora realizzati, che ci offrirebbero risorse più flessibili e selettive.

Ma il fatto è che oggi la televisione è la causa principale di continua confusione fra apparenza e realtà. E il fenomeno è particolarmente grave in quelle (purtroppo estese) parti della popolazione che fanno un uso molto scarso di altre fonti di informazione, di svago o di spettacolo.

Il nostro sistema percettivo è istintivamente capace di gestire situazioni metaforiche.

Un’immagine piatta alta venti centimetri che compare su uno schermo viene percepita come una persona in carne e ossa a grandezza naturale (i “primi piani”, tipici della sintassi televisiva, aiutano quell’effetto di illusionismo).

Il linguaggio della televisione è spesso costruito in modo da darci l’impressione che quei personaggi siano in casa nostra – o che noi siamo dove stanno loro. Finte interazioni, con un pubblico addomesticato o inesistente, ci danno l’illusione di essere “presenti” o di “partecipare”. Così, con l’abitudine, non riusciamo più a distinguere fra il mondo artificiale costruito in un teatro e quello in cui viviamo.

In una vignetta sul New Yorker, molti anni fa, un padre stava cambiando una gomma sotto la pioggia mentre il suo bambino lo guardava, da dentro l’automobile, attraverso il finestrino. E gli diceva «No, non possiamo cambiare canale».

Anche nella cronaca la percezione è deformata. Ciò che accade ogni giorno, ma non vediamo, ci sembra inesistente. Ciò che ci viene trasmesso attraverso l’occhio di una telecamera o di una macchina fotografica (e mostrato con vari montaggi ed elaborazioni di regia o di impaginazione) ci sembra “vero” come se lo vedessimo direttamente.

Se leggiamo una cronaca su un giornale, sappiamo di non essere presenti ai fatti e di riceverne la narrazione così come la interpreta l’autore dell’articolo. In televisione tendiamo a perdere quella distinzione, a confondere immagine e realtà.

L’artificiale diventa reale, l’apparire diventa essere. La situazione si rovescia. È vero, reale, significativo ciò che compare in televisione. Tutto il resto non esiste.

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Che le icone diventino realtà non è un’idea nuova. La trasformazione di statue o dipinti in presenze “incarnate” percorre la storia umana di tutti i tempi, dall’antico mito di Pigmalione al Convitato di pietra di Don Giovanni, dal ritratto di Dorian Gray all’arcivernice del professor Lambicchi sul Corriere dei Piccoli di tanti anni fa.

Ma quelli sono giochi, miti, fiabe o invenzioni letterarie. Invece oggi la quotidianità e la familiarità della televisione sconvolgono il nostro sistema percettivo fino a rovesciare il rapporto fra il mondo delle immagini e quello della realtà anche quando ciò che “crediamo di sapere” ci arriva da altri mass media, spesso asserviti al predominio televisivo.

Gli idoli diventano prigionieri dell’idolatria quanto i loro adoratori. Non solo chi lo fa di mestiere, ma anche chi per qualsiasi motivo diventa “noto” in televisione, perde il contatto con l’umanità. Quasi tutte le persone che incontra credono di avere a che fare con il personaggio televisivo, non con l’essere umano che non conoscono.

Chi vive in televisione diventa preda della sua immagine. Finisce col chiudersi in una lussuosa spelonca e autoconvincersi che quel minuscolo e “autoreferenziale” teatrino sia il mondo in cui vive anche il resto dell’umanità. È una psicopatia che tende ad aggravarsi – e non sembra che si pratichino terapie efficaci.

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Il problema dell’idolatria non si risolve diventando iconoclasti – né iconofobi. Le immagini, usate bene, sono sempre state un modo efficace di comunicare Ma sarebbe importante educare le persone a “decodificare” ciò che vedono, ascoltano e leggono.

Matteo Marangoni ci insegnava a “saper vedere” un’opera d’arte. Oggi uno dei compiti principali del sistema educativo e informativo dovrebbe essere insegnare a saper vedere e saper leggere ciò che gli apparati “mediatici” ci somministrano.

Una società di passivi idolatri imbambolati può sembrare conveniente a chi gestisce gli idoli, ma un sistema che si nutre di stupidità è condannato a diventare stupido – con conseguenze, come è facile constatare, pericolosamente complesse (vedi il capitolo 18 sul “circolo vizioso” della stupidità).

Devo confessare che talvolta sono preso da tentazioni iconoclastiche, non solo quando guardo la televisione, ma anche quando vedo certi abusi di immaginerie sui giornali – o nell’internet. Ma ovviamente non si tratta di abolire, reprimere o censurare alcuna forma di espressione.

L’importante è non lasciarsi imbambolare, imparare a distinguere e a capire. È improbabile che qualcuno abbia la bontà di insegnarcelo. Dobbiamo essere ostinatamente autodidatti.



Sull’uso di comunicazione confusa e istupidente
come strumento di potere vedi “Tettontimento”



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