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Cenni di storia dei sistemi
di informazione e comunicazione



I libri

Il libro non è nato con l’invenzione della stampa. C’erano libri e biblioteche cinquemila anni fa. Uno degli strumenti fondamentali dell’umanità “stanziale”, edificatrice di villaggi e di città, era la conservazione della parola scritta. Che fossero raccolte di documenti di coccio, rotoli di papiro o altri supporti di scrittura... erano libri.

Per chi, come me, si diverte con le etimologie – la parola “libro” ha origine dalle cortecce degli alberi – in particolare il papiro egiziano – da cui si ricavavano i “fogli” su cui scrivere. Derivano palesemente da “papiro” parole come paper in inglese o papier in francese e tedesco o papel in spagnolo. Una possibile origine della parola “carta” riporta a un altro antico metodo di scrittura, l’incisione su tavolette di cera. “Stampare”, ovviamente, deriva da vocaboli che significano “imprimere” e quindi ha un’origine analoga all’inglese print o al francese imprimer o al tedesco drucken.

Ma il libro come lo conosciamo oggi, fogli piegati, cuciti e rilegati, esiste da meno di duemila anni. Si diffuse fra il secondo e il quarto secolo d.C. Era di pergamena e si chiamava “codice” (mentre il “volume” era quello avvolto, cioè arrotolato).

La pergamena è più resistente del papiro, può essere piegata e cucita, permette di scrivere sui due lati, quindi è più adatta per i libri rilegati. La coesistenza del codex piegato e rilegato con il volumen arrotolato (o fogli distesi) continuò fino al dodicesimo secolo, quando l’uso del papiro fu definitivamente abbandonato

Pare che la carta fosse stata inventata in Cina duemila anni fa, come sostituto meno costoso della seta. Ma arrivò in Europa solo nel dodicesimo secolo – e fu largamente utilizzata trecento anni dopo, quando i libri stampati cominciarono a sostituire i manoscritti.

Fin dalle origini, non c’è mai stata un’epoca in cui i libri fossero solo “letteratura”. Le più antiche raccolte di testi scritti non erano quelle di poesia o narrativa (che rimasero per un po’ più di tempo affidate alla “tradizione orale”) ma di norme, leggi, documenti contabili o commerciali, contratti, rituali religiosi o di comportamento. O manuali tecnici e pratici di varie confraternite professionali. L’opinione diffusa fra gli editori di oggi, che i libri di più facile vendita siano i how to, cioè manuali (non sempre utili) su “come fare”... non è una novità. Ha radici nelle più antiche e remote origini dei libri o delle biblioteche.

I primi metodi di standardizzazione si realizzarono, dopo il Mille, con la nascita delle università, che richiedevano la produzione di libri e dispense in copie uguali, realizzate da botteghe organizzate di copisti. Nel Quattrocento c’erano imprese quasi “industriali” per la produzione in serie di manoscritti.

Ma naturalmente il grande sviluppo venne con l’uso della stampa. Si stima che la “tiratura” di un’opera pubblicata da Aldo Manuzio fosse di mille copie – e che il totale delle sue edizioni superasse le 120.000. La stampa si diffuse rapidamente in tutta Europa. Si calcola che nella seconda metà del Quattrocento si siano stampati 30 o 35 mila libri in 20 milioni di copie – più di quante ne potevano aver prodotto gli amanuensi in tutta la storia dell’umanità.

Nel Cinquecento le copie divennero 200 milioni, le edizioni fra 150 e 200 mila. Di cui 45.000 in Germania, 26.000 in Inghilterra, 25.000 a Parigi, 15.000 a Venezia, eccetera. Lo sviluppo continuò a tal punto che nel 1680 Gottfried Leibniz si preoccupava di “un’orribile massa di libri che cresce incessantemente”.

Il numero di libri stampati continua ad aumentare. La Library of Congress di Washington non li raccoglie tutti, ma è oggi la più grande biblioteca del mondo. Contiene 19 milioni di libri in 460 lingue. Ogni giorno aggiunge 10.000 nuovi “oggetti” alla sua collezione (che oltre ai libri comprende anche altri stampati, fotografie, registrazioni, eccetera – in totale 126 milioni). Il “pezzo” più antico è una tavoletta cuneiforme datata 2040 a.C. e il più antico libro stampato è una raccolta di mantra buddisti del 760 d.C.

La diffusione dei libri è, ovviamente, aumentata con la crescita del numero di persone che sanno leggere e scrivere. Ma in Italia, anche se l’analfabetismo “totale” è quasi scomparso, ha una crescita stentata.

Secondo il censimento gli analfabeti, che nel 1951 erano il 12,9 % della popolazione, sono scesi a 8,3 % nel 1961, 5,2 nel 1971, 3,1 nel 1981, 2,1 nel 1991 e 1,4 nel 2002. Ma è molto più alto il numero di persone che hanno una capacità limitata di leggere e scrivere. Secondo un’indagine dell’Ocse il 65 % degli italiani ha “competenze alfabetiche molto modeste” o “al limite dell’analfabetismo”.

Sul livello di “competenze alfabetiche” degli italiani uno studio dell’Associazione Italiana Editori dà segnali preoccupanti. Questa analisi suddivide le persone in tre categorie. La prima raggruppa i due livelli più bassi: con una “competenza alfabetica” molto scarsa, “ai limiti dell’analfabetismo”, e con “un limitato patrimonio di competenze di base“. Al terzo livello si trovano le persone con un “sufficiente patrimonio di competenze” e al quarto quelle con “competenze elevate”. Si attribuiscono capacita “elevate” all’8 % della popolazione, “sufficienti” al 26 %, “insufficienti” a due terzi del totale. Il problema si rivela ancora più grave quando si analizzano le differenze per età.


“Competenze alfabetiche” degli italiani
per età – percentuali – fonte: Aie

alfabetismo


Il problema è serio per la popolazione italiana in generale, ma si aggrava con il crescere dell’età. Questo fenomeno non dipende solo da una più alta “scolarità” nelle generazioni più giovani, ma anche da un degrado nell’invecchiamento. Molte persone “perdono l’abitudine” di leggere, o più in generale di avere curiosità culturali, e così progressivamente riducono il loro livello non solo di “competenza alfabetica”, ma anche di apertura mentale.

Aiutare i vecchi a evitare questo declino, e quando possibile a recuperare le facoltà perdute, dovrebbe essere uno dei più importanti impegni sociali nella nostra cultura. E non solo dal punto di vista dell’industria libraria.

Le diffuse lamentele sul fatto che gli italiani “leggono poco” trovano conferma in questi dati sulla produzione di libri.


Libri
1990=100 – fonte: elaborazioni Aie su dati Istat

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In una prospettiva relativamente lunga la produzione di libri in Italia risulta notevolmente aumentata. Nel 1990, rispetto a dieci anni prima, il numero di titoli pubblicati era quasi raddoppiato e le copie stampate erano cresciute del 32 %. Lo sviluppo negli anni successivi è meno veloce. Nel 2000, rispetto al 1990, la crescita era del 47 % per il numero di opere e del 20 % per la “tiratura” complessiva. Negli ultimi cinque anni ci sono oscillazioni, che riflettono le incertezze e i mutamenti d’umore delle imprese editoriali più che le richieste dei lettori.

La “tiratura media”, cioè il numero di copie stampate per ogni singolo libro, è in costante diminuzione. Nel 1980 era di 8.500 copie, nel 1990 meno di 6.000, oggi circa 5.000. I costi di produzione si sono ridotti con l’uso dell’elettronica – e questo ha indotto molti editori ad aumentare il numero delle opere pubblicate, anche a scapito della qualità. Ne deriva un mercato affollato e confuso, disorientante per i lettori e anche per i librai.

Secondo uno studio dell’Aie c’è stata una “leggerissima crescita” nel 2002. Nell’anno sono stati pubblicati circa 55.000 titoli per complessivi 260 milioni di copie.

Un fenomeno particolare nel 2002-2003 è l’ampio successo dei libri venduti in edicola abbinati ai quotidiani (42 milioni di copie nel 2002, probabilmente di più nel 2003). Ma non sembra che abbia modificato la situazione. Non risulta che abbia fatto diminuire, né aumentare, le vendite in libreria, né che abbia influito in modo rilevante sul numero di lettori.

Le complessità della distribuzione libraria rendono difficile una valutazione del numero di copie vendute in libreria, ma è opinione diffusa nel mondo editoriale che il mercato cresce poco e che il numero dei lettori è stazionario – cioè quando si vende qualche libro in più è perché chi già era abituato a leggere aumenta i suoi acquisti, non perché si riescano a conquistare nuovi lettori. Queste percezioni sono, almeno in parte, fondate nella realtà.

Secondo gli studi dell’Aie c’era stata una lenta ma costante crescita del numero di persone che leggono “almeno un libro all’anno” nell’ultimo decennio del secolo scorso, seguita da una fase di declino. Nel 2002 si è rilevato «un indice li lettura in leggera crescita, rispetto gli anni precedenti, ma ancora lontano dai valori di metà anni novanta e ancor più rispetto agli altri paesi europei».

Secondo varie fonti le persone che leggono “almeno un libro all’anno” sono il 38 % della popolazione in Italia rispetto al 60 % in Spagna, 69 % in Francia e 80 % nei paesi del Nord Europa (70 % media europea).

Le “serie storiche” dei dati Istat sulla lettura sono lacunose e poco coerenti. Ma la percentuale di persone che “leggono libri” in Italia sembra cresciuta dal 32 % della popolazione nel 1965 a oltre il 36 % nel 1973 – per poi rimanere più o meno stazionaria fino al 1988. Nel 1994 era arrivata al 38 %, nel 1998 al 42 %, ma negli anni seguenti è diminuita e ora sembra intorno al 40 %.

Le persone che leggono “12 o più libri all’anno” sono poche – circa il 5 % della popolazione. In contrasto con la situazione generale delle “competenze alfabetiche”, la ristretta categoria dei lettori abituali di libri non diminuisce con l’età. Sono prevalentemente adulti – e continuano a leggere anche quando invecchiano.

I dati non sono sempre chiari o facilmente interpretabili. Ma sembra confermato che, in confronto a paesi di paragonabile sviluppo economico e culturale, gli italiani “leggono poco”. Soprattutto si conferma il quadro indicato dal Censis: una divisione fra gli “abbienti” di informazione, che hanno una gamma estesa di strumenti, compresa la lettura, e i “poveri” che non solo leggono poco, ma hanno anche scarsità di altre risorse.




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