Si va verso la fine della povertà?

Giancarlo Livraghi – giugno 2013

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Nel dicembre dell’anno scorso, citando un articolo della rivista The Spectator, avevo pubblicato alcuni dati da cui risulta, in modo documentato da fonti attendibili, una sorprendente constatazione: il 2012 è stato “l’anno migliore di tutta la storia”.

Non era, sei mesi fa, un vano esercizio di irrilevante “ottimismo”. E non lo è oggi un’analisi dell’indice di povertà su scala mondiale pubblicata da The Economist il 1o giugno 2013.

poverty
Copyright © The Economist 2013

Benché sia ovvio, è necessario ripetere che la rilevazione di tendenze come questa (“nella misura in cui” sono credibili e significative) non può e non deve tradursi in passività contemplativa. I problemi rimangono molto gravi e sarebbe disastroso cullarsi nell’illusoria speranza di immaginarie soluzioni “spontanee”.

In senso contrario, la rilevazione di (relativi) miglioramenti dimostra che è concretamente possibile ridurre la piaga della povertà e perciò vale la pena di impegnarsi nella ricerca di risultati migliori – imparando continuamente dall’esperienza per capire quali sono, in pratica, i metodi più efficaci.

È necessario anche ricordare che tutte le statistiche devono sempre essere valutate con occhio critico, per capirne i limiti e i reali significati, senza cadere nell’errore di ingannevoli semplicismi. Per esempio, in questo caso, l’unità di misura è il “reddito pro capite” – cioè il cosiddetto “prodotto interno lordo” diviso per il numero di abitanti. La “soglia di estrema povertà” (secondo il criterio definito dalle organizzazioni internazionali che studiano l’argomento) è un “reddito medio” di 1,25 dollari al giorno.

Il significato di questi dati è tutt’altro che chiaro e omogeneo. Per esempio il “prodotto interno lordo” (e perciò il reddito) è misurato in base agli scambi monetari. In economie agricole la sopravvivenza di persone e famiglie è dovuta in larga parte all’autoconsumo, cioè al nutrimento che traggono direttamente dalla coltivazione della terra e dall’allevamento di animali. Quando (come sta accadendo nei paesi “in via di sviluppo”) i contadini diventano operai, o svolgono altre attività retribuite in denaro, privati delle tradizionali risorse agricole si trovano in grave povertà anche con redditi notevolmente superiori a 1,25 dollari al giorno.

Per esempio, osserva l’Economist, negli Stati Uniti si considera poverty line un reddito di 63 dollari al giorno per una famiglia di quattro persone. Nei meno poveri fra i “paesi emergenti”, l’indice è quattro dollari a testa.

Anche il concetto di persona o famiglia “media” è sempre discutibile. Sono molti i paesi (non solo i più evidenti) in cui una grande ricchezza è nelle mani di pochi e la maggioranza della popolazione non ne trae alcun vantaggio.

A complicare ancora di più la situazione, in questo periodo c’è il degrado nei paesi “tradizionalmente ricchi” (in particolare, ma non solo, in Europa). La perniciosa demenza della speculazione finanziaria ha provocato quella assurda “crisi” in cui non solo il reddito complessivo diminuisce, ma la sua distribuzione degenera verso una perversa concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e un crescente disagio di tanti – cioè il contrario di ogni sano sviluppo economico, sociale e civile. (Vedi alla fine un elenco di alcuni dei testi che ho pubblicato, nel corso degli anni, su questo argomento).

Ma il fatto è che, pur con tutte le necessarie cautele nella valutazione dei dati, le analisi sulla “decrescita della povertà” non sono prive di significato. Così comincia l’articolo dell’Economist, con una constatazione di 64 anni fa.

«Nel suo discorso inaugurale nel 1949 Harry Truman disse che “più di metà delle persone nel mondo vivono in condizioni vicine alla miseria. Per la prima volta nella storia, l’umanità possiede le conoscenze e le competenze per alleviare la loro sofferenza”. C'è voluto molto più tempo di quanto Truman sperava, ma recentemente il mondo sta facendo straordinari progressi nel liberare la gente da estrema povertà. Fra il 1990 e il 2010 il numero si è dimezzato come percentuale nei paesi in via di sviluppo, dal 43% al 21% – una diminuzione di quasi un miliardo di persone».

«Ora il mondo ha una seria possibilità di mantenere l’impegno di Harry Truman, alleviare la situazione dei più sacrificati. Dei sette miliardi di persone viventi sul pianeta 1,1 è ancora sotto il limite internazionalmente convenuto di estrema povertà, $1,25 al giorno. Cominciano questa settimana e dureranno circa un anno le solite consultazioni nell’Onu fra politici e funzionari governativi e di organizzazioni internazionali per elaborare nuovi obiettivi in sostituzione dei “Millennium Development Goals” (MDG) che erano stati stabiliti nel settembre 2000 e si esauriscono nel 2015. Il principale nuovo obiettivo dovrebbe essere la riduzione, entro il 2030, di un altro miliardo del numero di persone in estrema povertà».

Cioè dovrebbe scendere, nei prossimi sedici o diciassette anni, da quasi due miliardi nel 1990 a circa 500 milioni di persone. Un numero ancora tragicamente enorme, ma straordinariamente più basso (come percentuale della popolazione) di quanto sia mai stato in tutta la storia dell’umanità.

Sarebbe opportuno, anche se non è facile, capire un po’ meglio come e perché la situazione si è evoluta finora. Non è sorprendente che ci siano differenze nelle valutazioni dei risultati. Il più importante dei Millennium Development Goals era dimezzare il numero di persone in estrema povertà entro il 2015. Secondo i dati pubblicati dalla World Bank il 29 febbraio 2012 (e citati da The Spectator in dicembre) risulta che è stato raggiunto sette anni prima, nel 2008. Le valutazioni su cui si basa The Economist indicano un’evoluzione più lenta – ma anche così sembra credibile che l’obiettivo sia superato entro il 2015.

L’andamento del grafico in copertina dell’Economist per gli anni successivi al 2012 non è da interpretare come una previsione, né una proiezione. Somiglia più a una speranza (o un target da raggiungere) che a un’ipotesi di tendenza. Sono comunque dati grossolanamente “complessivi” in cui si mescolano turbolenze di ogni genere, compresi sviluppi imprevisti e imprevedibili di (relativo) miglioramento e una varietà di situazioni in cui gli indici di povertà e di malessere stanno peggiorando.

È interessante, quanto preoccupante, constatare che mentre si rileva una diminuzione della “estrema povertà” su scala mondiale accade il contrario nei paesi “tradizionalmente ricchi”. Sarebbe un grossolano errore supporre che ci possa essere qualche specie di contrappasso o compensazione. Le interazioni sono di tutt’altro genere e tendono a convergere, non a contrapporsi. In tutto il mondo c’è una grave degenerazione nella distribuzione della ricchezza, con troppe risorse in mano a troppo pochi a scapito di una maggioranza di persone, famiglie e comunità in crescente sofferenza e disagio.

Non si tratta solo di etica, empatia e solidarietà. Le complesse interazioni fra culture ed economie diverse, anche a grandi distanze geografiche, hanno un’intensità che non c’era mai stata in tutta la storia della nostra specie.

Che ci piaccia o no, le possibilità di comunicazione continueranno a crescere, anche in modi finora imprevedibili. Con molte e concrete possibilità di miglioramento, ma anche una preoccupante moltiplicazione di turbolenze, disagi, conflitti, oppressioni, ingiustizie, crudeltà e violenze.

È raro che un giornale come l’Economist, tendenzialmente sobrio e abitualmente poco incline all’ottimismo, si lasci tentare da espressioni come «la fine della povertà» o «il prossimo grande balzo avanti del mondo». Solo continuando a osservare i fatti potremo capire quanto le evoluzioni come questa siano davvero incoraggianti, durevoli e costruttive. Intanto, però, è importante sapere che ci sono e che sembrano avere una sana tendenza a continuare nei prossimi anni – senza la capacità di risolvere radicalmente e definitivamente alcun problema, ma con la possibilità di sviluppare circostanze favorevoli a molti sostanziali progressi.

Dobbiamo certamente evitare ogni rischio di sconsiderato entusiasmo o esagerata esultanza. Ma sarebbe altrettanto sciocco ignorare il fatto che, fra tante situazioni preoccupanti e deprimenti, ci sono anche concreti e fertili progressi da cui nascono molteplici possibilità degne di essere coltivate.

Il concetto più rilevante, nel contesto che stiamo osservando, è proprio questo: “possibilità”. Un’evoluzione, che in sé non porta alla soluzione di un problema, può offrirci l’occasione di trovarla con minore difficoltà e più efficacia. Una “grande tendenza” di cui stiamo osservando lo sviluppo può generare una corrente favorevole. Così come un piccolo seme può diventare una grande quercia se è piantato nel terreno adatto.

Non è possibile, nelle prospettive che conosciamo oggi, “mettere fine” completamente alla povertà. Ma non è necessario. Se, quando e dove è ridotta a dimensioni meno catastrofiche, diventa più facile dare aiuto a chi non è in grado di uscire, solo con le proprie risorse, dalle strettoie della miseria.

Il cambiamento che si sta sviluppando, per la prima volta in tutta la travagliata storia del genere umano, è importante. Merita l’insolita enfasi con cui lo commenta l’Economist. Ma la riduzione del numero di persone “sotto la soglia estrema” non si può definire “fine della povertà”. Per arrivarci occorrerà salire a molto più di 1,25 dollari al giorno. E non basterà che sia una “media” – dovrà essere la condizione minima dei meno abbienti.

Comunque non può essere solo una questione di denaro. È necessario tener conto del livello di libertà, salute, conoscenza, educazione, ambiente (fisico e culturale). Insomma di quel valore difficilmente misurabile, ma sostanzialmente essenziale, che si chiama “qualità della vita”.

Tuttavia, pur con tutti questi limiti e incertezze, il raggiungimento del primo obiettivo MDG è davvero una buona notizia. Possiamo permetterci un breve, rasserenante sorriso per la constatazione che “non tutto va male”. Ma, soprattutto, scoprire il valore del “possibile”. Cioè la capacità, che tutti abbiamo, di ottenere risultati se capiamo dove trovare occasioni favorevoli.



Due articoli su questo argomento
nello stesso numero dell’Economist

The world’s next great leap forward
Towards the end of poverty
Nearly 1 billion people have been taken out of extreme poverty
in 20 years. The world should aim to do the same again.


Poverty – Not always with us
The world has an astonishing chance to take a billion people
out of extreme poverty by 2030


Per chi non li ha già letti
alcuni testi precedenti su temi “connessi”

Capire il mondo per pensare meglio
Le affascinanti origini dell’umanità
Umore e psiche
2012 l’anno migliore di tutta la storia?
Inferni e paradisi (fiscali)
Le dimensioni inesplorate della povertà
L’arte perversa del piagnisteo
Uomini e topi
C’era una volta il mercato



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