Il generale Biperio
e il flop del wap

Giancarlo Livraghi – agosto 2000

(Estratto dal numero 48 di Il mercante in rete)



Il 5 agosto 2000, in un articolo di fondo sul Corriere della Sera, Angelo Panebianco si chiedeva se con le riforme delle scuole e delle università avremo un’ulteriore crescita di un fenomeno preoccupante: gli studenti universitari (e anche molti laureati) che non sanno l’italiano.

«Quelli che credono che a fianco di Garibaldi combattesse il generale Biperio (il semianalfabeta scrive “x” ma legge “per”), quelli che pensano che l’Ariosto sia una cosa da mangiare...».

Se i grandi giornali si fossero accorti del fallimento dell’ennesima “tecnologia miracolosa” avremmo potuto vedere in un’altra pagina un titolo come “Il flop del wap”; con scarso interesse della maggior parte dei lettori, che non hanno la minima idea di che cosa voglia dire, ma (giustamente) se ne infischiano.

Non sono un cultore della “purezza della lingua”. Il linguaggio è una cosa viva e si arricchisce anche con neologismi, contaminazioni, importazione di vocaboli stranieri. Non è scandaloso né preoccupante che ormai ci siamo abituati a dire computer anziché “calcolatore” (mentre i francesi e gli spagnoli lo chiamano “ordinatore”).

Non mi sembra terribile che si dica e-mail invece di “posta elettronica” o e-business per riassumere una definizione che sarebbe un po’ lunga in italiano. Ma, mentre nel primo caso è (relativamente) chiaro di che cosa stiamo parlando, nel secondo il senso delle parole comincia a diventare confuso. Non per il tipo di linguaggio, ma per il fatto che il concetto non è ben definito.

Ci sono neologismi utili o divertenti, che usati con lo spirito giusto possono arricchire la nostra capacità di esprimerci. Ma ci sono manierismi e scopiazzature che si accumulano fino a rendere il linguaggio incomprensibile o distorcere il pensiero.

Se qualcuno scrive “ti voglio + bene” o “partiamo x Genova” non dà buoni esempi di stile, ma almeno si capisce che cosa vuol dire. Ma l’imperversare di sigle e altre forme gergali (per non parlare di pessime e devianti traduzioni dall’inglese) è la fabbrica dell’incomprensibile e la maschera che dietro formule poco chiare nasconde un pensiero confuso. All’imperversare di B2B, B2C, C2C e C2B si stanno aggiungendo varie altre sigle dello stesso genere.

Di questo passo si arriva facilmente al “pensiero nullo”, a una ripetizione infinita di concetti di cui non è chiaro il significato. Può essere solo comico che in qualche tesi di storia oltre a Nino Biperio si citino Carlo Marper e Maper Weber o che ci sia uno scrittore di 9lle, un cuoco che fa il ris8, una località di montagna chiamata Orti6 – e (visto che si copiano analogie fonetiche dell’inglese) qualcuno sia un po’ s2pido o burl1 o qualche 2rista vada in 2nisia.

Non è una 3menda minaccia per la qualità della lingua e la chiarezza di pensiero, perché di solito i giochini come questi tendono a esaurirsi. Ma l’imprecisa schematicità delle formule gergali è un pericolo serio; perché da che mondo è mondo si usano i gerghi oscuri per épater les bourgeois e per nascondere la propria ignoranza o confusione mentale.

Se non ci fermiamo a cercar di capire di che cosa stiamo parlando saremo sempre più travolti da uno pseudo-linguaggio dove ciascuno interpreta le parole a modo suo e ogni dialogo è privo di senso.




Su questo argomento vedi anche

Le ambiguità del “digitale“ (settembre 2005)

Analfabetismo (novembre 2006)

Riflessioni sull’analfabetismo (settembre 2007)




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