labirinto
Il filo di Arianna


novembre 2006

Giancarlo Livraghi – gian@gandalf.it


Disponibile anche in pdf
(migliore come testo stampabile)



Analfabetismo

Da che parte si comincia per risolvere il problema?



Da un po’ di tempo circolano qua e là sui giornali, e anche online, “notizie” a proposito della scarsa “alfabetizzazione” degli italiani. Il fatto non è nuovo, il problema è noto da molti anni. Non è chiaro quale sia il motivo per cui se ne riparla oggi. Si accenna a “recenti ricerche” – ma molti che le citano non sanno di che cosa si tratti.

Prima di aggiungere qualche commento, vorrei ricordare che informazioni e osservazioni su questo tema si trovano in vari documenti nella sezione dati. In particolare in due analisi basate su ricerche del Censis (e anche su altre fonti). Un’evoluzione complessa fra “abbondanza” e “scarsità” (2003) e, più recentemente, Un’evoluzione complessa fra cambiamenti e continuità (2006). La somiglianza dei due titoli non è casuale. Ogni approfondimento porta a capire che si tratta di un’evoluzione complessa, in cui è semplicistico parlare di “alfabetismo” o di “alfabetizzazione” – e in cui si mescolano cambiamenti rilevanti con situazioni che hanno radici lunghe nel tempo.

Un nuovo studio del Censis, di cui finora è disponibile solo un rapporto preliminare, offre un confronto fra cinque paesi europei. I dati sono del 2006. Vediamo una breve sintesi di tre situazioni che riguardano la lettura. Cominciamo con i libri.


Libri
percentuali sulla popolazione

libri
La parte più scura delle barre indica la lettura “abituale”.
Il totale riguarda le persone che hanno letto “almeno un libro in un anno”.
Si considera “lettore abituale” chi ne ha letti “almeno tre”.


In tutti i paesi c’è una percentuale rilevante di persone che non hanno letto neppure un libro in un anno. Ma se in Gran Bretagna sono un quarto della popolazione, in Italia sono il 45 per cento. La definizione di “lettore”, in questo caso, è così estesa che i “non lettori” si possono considerare come privi, o scarsamente dotati, di capacità culturali.

Da altre fonti (vedi le analisi citate all’inizio) risulta che la lettura è debole in Italia anche rispetto a molti altri paesi europei. La situazione, nel corso degli anni, sta leggermente migliorando, ma rimane preoccupante.

Nel prossimo grafico vediamo lo stesso confronto, riferito alla stampa quotidiana.


Giornali
percentuali sulla popolazione

libri
La parte più scura delle barre indica la lettura “abituale”.
Il totale riguarda le persone che hanno letto “almeno un quotidiano negli ultimi sette giorni”.
Si considera “lettore abituale” chi ne ha letti “almeno tre” in una settimana.


Anche in questo caso vediamo una presenza rilevante di “non lettori”, che varia dal 20 % in Germania al 40 % in Italia.

(Non c’è lo spazio, in questa sede, per approfondire il caso della Francia – dove sembra esserci una scarsa lettura dei quotidiani, ma una diffusione relativamente più alta dei periodici).

Il terzo grafico riguarda l’internet. La rete può essere usata anche per scopi diversi dalla lettura, ma è rilevante in questo quadro per due motivi. Uno è che quasi nessuno usa la rete senza leggere e scrivere. L’altro è che, come dimostrato da tutti gli studi sull’argomento, l’uso dell’internet è concentrato fra i “più abbienti”, cioè fra i più forti utilizzatori di altre risorse di informazione e comunicazione – e in particolare della lettura.


Internet
percentuali sulla popolazione

libri
La parte più scura delle barre indica l’uso “abituale”.
Il totale riguarda le persone che hanno usato l’internet “almeno una volta negli ultimi sette giorni”.
Si considera “abituale” l’uso “almeno tre volte” in una settimana.


L’uso della rete è in forte crescita in tutto il mondo – e anche in Italia (vedi dati italiani). Ma anche recenti dati dell’Unione Europea confermano che l’Italia è ancora molto arretrata rispetto alla maggior parte dell’Europa.

È opportuno ricordare, ancora una volta, che l’uso e il non uso di risorse di informazione e comunicazione tendono ad aggregarsi. Cioè le persone che leggono più libri e giornali sono le stesse che usano l’internet – e viceversa. La distinzione fondamentale è fra i “più abbienti”, che hanno una gamma di risorse sempre più ampia, e i “meno abbienti” che rimangono chiusi in un’area più buia, dove poco o nulla si aggiunge all’onnipresente televisione “generalista” e al suo continuo sprofondare in un abisso “autoreferenziale”.

Che cosa c’è di nuovo nei “recenti studi” sull’analfabetismo in Italia? Nulla. Come spesso accade, ciò che sorprende è la sorpresa. Un improvviso, quanto labile, momento di “allarme” su un problema noto da molti anni – seguito da un ritorno alla solita disattenzione.

Non risulta che ci sia alcuna “recente ricerca”. Sembra che quella di cui si parla sia un’analisi pubblicata nel giugno 2006 dall’associazione Unla e dall’Università di Castel Sant’Angelo. Quello studio contiene alcune osservazioni interessanti, particolarmente riferite alla situazione nell’Italia meridionale, ma non offre alcun dato “nuovo”: si basa su dati Istat e di altre fonti, già noti e citati in varie precedenti analisi (comprese alcune pubblicate in questo sito).

Che non ci siano “novità” è sottolineato proprio da questo studio, che rileva la scarsità di evoluzione: per esempio nota come i dati Istat del 2001 su questo argomento siano poco diversi da quelli di dieci anni prima.

Le “notizie” più ampiamente riferite in vari articoli e commenti riguardano il problema dell’analfabetismo. Si dice che in Italia c’è “quasi un milione di persone che non sanno leggere e scrivere”. Ma, soprattutto, che un terzo della popolazione soffre di “analfabetismo funzionale”. È credibile che la situazione sia davvero preoccupante, ma non ci sono dati che ne diano una “misura” numericamente significativa. E manca una chiara comprensione di che cosa si intenda per “analfabetismo funzionale”.

Nello studio citato si usa la definizione “ana-analfabeta” (che equivale a “analfabeta funzionale”) per definire non un totale analfabetismo, ma limitate capacità di leggere e scrivere. La “quantificazione” non è basata su “prove di alfabetismo” (che sarebbero comunque poco credibili in assenza di una precisa verifica delle metodologie) ma è “dedotta” dai dati Istat sui livelli scolastici. Un metodo che può essere valido (in assenza di criteri più precisi) per segnalare l’esistenza e la gravità di un problema, ma non per darne una valutazione numericamente significativa.

Nell’ambito dello stesso studio, diversi criteri di definizione portano a diverse valutazioni del numero stimato di “ana-analfabeti” – che varia, secondo i parametri, dal 12 al 36 o al 66 per cento della popolazione.

(Non risulta reperibile alcuna fonte per l’affermazione, citata in alcuni articoli, che “fra i laureati c’è il 7,2 per cento di analfabeti”. Ma il fatto che qualcuno la possa considerare attendibile rinforza i dubbi, motivati anche da altre considerazioni, sui metodi didattici di molte università).

Non si trova alcuna traccia di studi in cui sia stato verificato se una persona “non sa compilare un modulo o non capisce un articolo in un giornale”. Oppure “non è in grado di capire la posologia di un medicinale o il manuale d’uso di un elettrodomestico” o “non è capace di leggere un grafico”. Che sia quella la definizione di “ana-analfabeta” o “analfabeta funzionale” sembra non essere altro che un’invenzione derivata dalla fantasia di qualcuno che ha “riferito la notizia” interpretandola a modo suo – poi (come spesso accade in tante cose) ripetuta da altri senza verificarne l’origine e la credibiltà.

Ma proviamo a immaginare che qualcuno avesse fatto davvero una ricerca in base a quei criteri. Mi viene il dubbio che, se fossi stato intervistato, sarei stato classificato fra gli “analfabeti funzionali”.

Molti moduli sono fatti così male che è difficile “compilarli”. Leggo spesso articoli sui giornali che trovo inconcludenti e incomprensibili (e ci sono parecchi libri altrettanto deludenti).

Quanto a quei complicatissimi foglietti che si trovano nelle scatole dei medicinali, gremiti di avvertimenti su possibili controindicazioni o complicazioni, ovviamente dettati dalle cautele degli uffici legali più che da un desiderio di utile informazione... non credo di essere l’unico a trovarli di difficile (e sconcertante) lettura. Per non parlare degli astrusi “manuali”, per ogni sorta di aggeggi, che anche i tecnici specializzati faticano a decifrare.

Credo di saper leggere un grafico. Ma molti sono incomprensibili. Perché manca una spiegazione chiara di quale sia il significato dei dati – e spesso i grafici sono fatti in modo da deformare l’informazione. (È più che mai di attualità il “classico” How to Lie with Statistics di Darrell Huff, di cui finalmente si sta preparando un’edizione italiana).

Il guaio è che, in base a quei criteri, non solo sono “funzionalmente analfabeta”, ma ho scarsissimo desiderio di cambiare. Faccio tutto il possibile per evitare di “compilare moduli”. Quando trovo un articolo incomprensibile, incoerente o confuso rinuncio a leggerlo (se l’argomento mi interessa, vado a cercare un’altra “fonte” che si spieghi meglio). Odio l’incomprensibilità dei manuali tecnici. Diffido delle statistiche.

Insomma sono un “analfabeta” ostinatamente incurabile – o, come minimo, recidivo.

Sto scherzando? Non del tutto. Se è giusto preoccuparsi di una eccessiva mancanza di “alfabetismo”, e soprattutto di curiosità culturale, in una parte troppo grande della nostra popolazione, quella che manca è una seria autocritica da parte di chi dovrebbe “fare cultura” e invece diffonde ignoranza – o si isola in una squallida turris eburnea che non ha neppure il pregio di un’architettura gradevole o di contenuti illuminanti.

Può essere giusto (e andrebbe fatto con più impegno) dedicare tempo, risorse ed energie al “recupero” delle persone culturalmente emarginate. Ma non si tratta di ritornare ai tempi di quella trasmissione televisiva Non è mai troppo tardi (giustamente ricordata con rispetto) che il bravo maestro Alberto Manzi conduceva in Rai fra il 1959 e il 1968.

È vero che “non è mai troppo tardi”. Ma il problema è che gli anni passano e la situazione migliora poco (per alcuni aspetti, sta peggiorando). C’è bisogno di un forte cambiamento e bisogna cominciare dalla testa. Cioè da quelle élite culturali, politiche, sociali, economiche, eccetera, che del “profano volgo” capiscono poco o nulla – e sembrano sempre più crogiolarsi nel circolo vizioso della stupidità.

Si parla tanto di competitività, ma non si bada abbastanza al fatto che una delle risorse più importanti è la cultura. Non dico che sia necessario studiare latino e greco (anche se male non farebbe) ma certo è importante sviluppare in tutti, dalle prime età scolastiche fino alla vecchiaia, una ricchezza culturale che non sia fatta solo di competenze tecniche o di ristretti orizzonti professionali.

Per far questo occorre, prima di tutto, che a chi crede di poter insegnare ritorni la voglia di imparare. Che prima di parlare si impari ad ascoltare. Ed è importante capire che quando il “popolo” è (o sembra) stupido, o ignorante, la colpa è soprattutto di chi non sa (o non vuole) spiegarsi bene.



Un interessante articolo su questo argomento
è stato pubblicato nel settembre 2007



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