la strategia


15. Alcune cautele



a. Leggi, norme e regolamenti

b. Rispetto verso il consumatore, la marca e il cliente

c. L’intelligenza del “consumatore”

d. Il problema del “buon gusto”

e. La pubblicità “comparativa”

f. I soldi

g. Responsabilità





Una strategia e la sua esecuzione possono essere “efficaci” (almeno a breve termine) anche se non rispettano alcune regole morali, legali e di gusto.

Finora abbiamo parlato di come rendere efficace una strategia. Ma esistono alcune regole di comportamento che è bene rispettare, indipendentemente dal puro problema dell’efficienza.

Queste norme non contrastano in alcun modo con l’efficacia. Nulla nell’esperienza ha mai dimostrato che una campagna sgradevole o di cattivo gusto non possa essere sostituita da una gradevole, di buon gusto e almeno altrettanto efficace.

L’esperienza dimostra che trattare i consumatori con rispetto e cortesia costituisce un vantaggio significativo per la marca.

 

a. Leggi, norme e regolamenti

Molte imprese di comunicazione e molti utenti aderiscono al Codice di Autodisciplina Pubblicitaria (anche chi non aderisce è di fatto assoggettato al Codice perché vi aderiscono tutti i mezzi più importanti). Così come ci sono leggi dello stato, norme dell’antitrust, regole specifiche per alcuni settori (per esempio i prodotti farmaceutici) eccetera.

Non sempre queste regole sono “giuste” e corrette. Alcune delle norme sono utili e sagge. Altre sono irragionevoli imposizioni o assurdità burocratiche. Se non si è d’accordo, può essere ragionevole contrastare apertamente la norma, chiederne il cambiamento o una diversa interpretazione. Ma non “trasgredirla” di nascosto. Non solo perché è pericoloso, ma anche perché tende a portare tutto il progetto in una situazione falsa. La regola della buona comunicazione è la chiarezza, non il sotterfugio; e questo impone norme di correttezza che vanno oltre le leggi e i regolamenti.

Nella formulazione di una strategia è importante definire con chiarezza fin dall’inizio se ci sono vincoli (legali, normativi o di altra specie) per evitare di disperdere energie e pensiero in direzioni irrealizzabili. Può accadere che un “vincolo” sia in realtà un preconcetto o un’interpretazione restrittiva, quindi sia superabile; ma anche in questo caso occorre averne coscienza e prevedere in anticipo le difficoltà che potranno sorgere se sarà necessario “rompere una regola”.

 

b. Rispetto verso il consumatore,
    la marca e il cliente

Non è solo un valore etico, ma anche un fattore di efficienza, trattare sempre con rispetto il consumatore. Bisogna ricordare che (specialmente quando usiamo la televisione) entriamo “non invitati” in casa sua. Questo non significa che la nostra pubblicità debba essere sdolcinata, blanda o falsamente divertente. Al contrario. Dobbiamo essere chiari e se occorre molto espliciti. Ma sempre comportarci con la dignità, la cortesia e il rispetto di chi entra in casa d’altri.

Un’altra buona regola è di non deridere, degradare o sminuire la marca. Grande o piccolo che sia il suo ruolo nella vita del consumatore, non è rendendola meschina o sgradevole, comica o pedestre, che le daremo lunga vita e successo.

La terza regola è di avere un analogo rispetto verso il cliente, non solo nel nostro dialogo con lui ma anche e soprattutto nella pubblicità che facciamo.

Un’osservazione particolare: l’umorismo è uno strumento pericoloso. Spesso un tocco di gradevole umorismo (o umanità) può migliorare l’accettabilità e l’efficacia di un messaggio. Ma bisogna avere il “tocco” giusto. Un buon criterio di riferimento è quello di non mettere mai in ridicolo né il consumatore, né la marca, né il prodotto, né chi lo fabbrica, né chi lo vende. Vediamo pubblicità (e spettacoli) di una comicità grottesca e degradante. Forse possono anche avere successo. Ma è possibile avere successo senza ricorrere a questi strumenti.

 

c. L’intelligenza del consumatore

C’è chi pensa che il “consumatore” sia un cretino e vada trattato come tale. C’è invece chi parte dalla premessa che sia una persona sensata, sensibile e intelligente.

Nessuno è mai riuscito a dimostrare definitivamente la verità dell’una o dell’altra tesi.

Ma ci sono buoni motivi per partire dalla seconda ipotesi.

Il “consumatore” non è altro che una persona normale. L’osservazione della storia antica e recente può portare alla constatazione che molti comportamenti umani sono stupidi. Quindi è perfettamente giustificata l’ipotesi che il consumatore, in quanto essere umano, si comporti in modo “non intelligente”.

Ma si può scegliere di seguire una teoria diversa, e quindi di cercare sempre quali sono i fattori intelligenti (o intelligibili) che spiegano il comportamento del consumatore; e di trattarlo sempre con il rispetto che merita una persona intelligente. L’esperienza dimostra che la comunicazione concepita con questi criteri non è mai meno efficace di quella che “tratta la gente come stupida”; e sulla distanza questa soluzione è molto meno rischiosa.

Vedi a questo proposito Il potere della stupidità
e in particolare Il circolo vizioso della stupidità.

Si può anche affermare, non senza ragione, che il “consumatore” ha un comportamento più intelligente di quello dell’uomo in generale: perché una persona è assai più competente e informata su ciò che “consuma” che su temi più remoti come, per esempio, la politica o le teorie filosofiche – e anche su argomenti su cui “crede” di sapere tutto, come il gioco del calcio o la vita personale di persone famose (o come funziona davvero la pubblicità).

Due cautele:

  1. “Intelligente” non significa “razionale”. Ci sono comportamenti e valori che possono apparire “irrazionali”. Sta a noi comprenderne il motivo e la natura.

  2. L’intelligenza del consumatore può funzionare in modo diverso dalla nostra o da quella del nostro cliente. Sentiamo talvolta dire da una persona di cultura accademica che qualcun altro è “stupido” perché si esprime in modo diverso dal suo. In realtà lo stupido è chi non sa capire la lingua e la mentalità della gente.

 

d. Il problema del “buon gusto”

Il “buon gusto” è indefinibile. La percezione di “gusto” può variare molto secondo la posizione culturale di ciascuno. Tuttavia non è molto difficile mettersi d’accordo in pratica su un caso concreto. Buon gusto è evitare la violenza, la volgarità, tutto ciò che può dare fastidio e mettere in imbarazzo il nostro interlocutore.

Buon gusto è non offendere, non deridere né le persone, né le istituzioni in cui le persone credono. Forse il magistrato che ha sequestrato un manifesto con l’Ultima Cena ha torto, ma il fatto che uno non sia cristiano non lo autorizza a offendere i cristiani (o i buddisti, i musulmani, gli israeliti, o qualsiasi altra comunità di onesti cittadini che hanno un comune ideale).

Buon gusto è non ingerirci di cose che non competono alla marca di cui ci occupiamo. C’è chi ha fatto della “provocazione” un metodo, con l’unico obiettivo di dar fastidio a qualcuno e così scatenare qualche polemica che “faccia parlare i giornali”. Ma nessuno di questi è mai riuscito a dimostrare che in quel modo si sia fatto qualcosa di utile e costruttivo per una marca o un prodotto.

Buon gusto è curare la forma e lo stile delle campagne in modo che siano “belle”. Anche il concetto di “bello” è soggettivo, ma la ricerca della qualità, anche estetica, non è una cosa vaga, né indefinibile. Una campagna “brutta” può funzionare quanto una “bella”, ma va contro la dignità professionale di chi la fa – ed è pericolosa per l’immagine della marca. (Una campagna popolata di modelle elegantissime e longilinee, di signori col vestito inamidato, di personaggi falsi, non è “bella”, è solo artificiosa).

Buon gusto è evitare gli stereotipi, i modelli socioculturali superati o momentaneamente “di moda”, la villania, la grossolanità, la ripetizione ossessiva, l’invadenza, la falsità, e tutti quegli orpelli esecutivi che divertono tanto i colleghi delle altre agenzie (o le giurie dei mille premi e “festival”) ma interferiscono con la chiarezza e la sincerità della comunicazione.

 

e. La pubblicità “comparativa”

La legge tende sempre più a permettere la pubblicità“comparativa”. Ma non se ne vede molta, neppure nei paesi in cui è permessa da molto tempo.

L’argomento è molto dibattuto e forse merita un breve approfondimento.

  1. In linea di principio, una corretta comparazione è legittima, se il nostro prodotto ha un vantaggio rilevante e oggettivamente documentabile.

  2. In pratica la comparazione può essere molto pericolosa: una “lite da lavandaie” fra due marche, con elencazione di vantaggi tecnici più o meno irrilevanti per il consumatore, può facilmente degradare l’immagine di un’intera categoria.

  3. Conviene pensare tre volte prima di citare la marca di un concorrente; potremmo fargli un grosso favore (per il solo fatto di prenderlo a paragone, gli diamo una “patente” di importanza).

Talvolta la comparazione è uno strumento utile per la marca più debole, che confrontandosi con quella più affermata cerca di mettersi sullo stesso piano. Uno degli esempi più evidenti è il caso della Pepsi-Cola, che nel ruolo storico di “sfidante” per molti anni ha attaccato direttamente la Coca-Cola; mentre la marca tradizionalmente più affermata non ha mai fatto il contrario (o meglio, nei rari casi in cui l’ha fatto ne ha subito un danno).

In conclusione: è giusto che la “comparazione” non sia vietata; ma è meglio usarla con prudenza, dignità e correttezza, solo quando il punto di confronto è veramente rilevante e siamo sicuri che il vantaggio per la nostra marca sia superiore al “regalo” che facciamo al concorrente.

 

f. I soldi

Una delle responsabilità dell’agenzia (o di qualsiasi altra organizzazione professionale) è quella di spendere bene e con prudenza i soldi dei suoi clienti; e di evitare errori o dispersioni che si traducono in una perdita di denaro per l’agenzia.

Si dirà: ma questi sono problemi che riguardano soprattutto la fase esecutiva – piano media, soluzioni creative, produzione.

È vero. Ma è bene pensarci già in fase di strategia. Non è il caso di pensare a un’immagine ambientata nei Mari del Sud se l’investimento non consente il costo di produzione. Non è bene impostare una strategia che abbia bisogno di grande vistosità se l’investimento media disponibile non consentirà di svilupparla. Eccetera.

Realizzare una campagna con mezzi inadeguati è un grosso rischio. Meglio pensarci prima.

Un altro fattore è il tempo. Una strategia ben definita con il giusto anticipo permette di esplorare prima alcuni problemi esecutivi ed evitare quella velenosa combinazione di alto costo e bassa qualità che può nascere dalla fretta.

 

g. Responsabilità

Chi fa comunicazione è responsabile non solo verso il cliente, ma anche verso il pubblico e verso l’identità generale della sua professione.

Prima di scegliere una strategia o un’esecuzione, è meglio chiedersi: che opinione si farà di noi, e della pubblicità in generale, il pubblico quando vedrà o ascolterà questa cosa?

Se pensiamo che gli darà fastidio, o potrà fargli danno, scegliamone un’altra. C’è sempre un modo per essere efficaci senza essere sgradevoli, noiosi, fastidiosi o irritanti.

Purtroppo molti non seguono questo semplice principio. Il risultato è un degrado generale, che nuoce a tutti.




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