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I nodi della rete
di Giancarlo Livraghi
agosto 2010


Disponibile anche in pdf
(migliore come testo stampabile)


Qualche voce di buon senso


Nell’ossessionante panorama delle stupidaggini, o delle “dotte” elaborazioni di banali inutilità, per fortuna qualche volta spunta una voce di buon senso. Questo è interessante in generale, ma qui si tratta dei sistemi di comunicazione (in particolare dell’internet). Un argomento in cui, fin da quando si è cominciato a parlarne, il potere della stupidità (e dell’ignoranza) trova pascoli lussureggianti.

Recentemente ho scritto su tre casi, di cui stranamente si parla poco. In maggio si trattava del sostanziale passo avanti di linux. Più estesamente, della concreta possibilità che i sistemi opensource possano finalmente prendere il sopravvento. (O meglio, ritrovarlo, perché l’avevano ai tempi delle origini). Con un enorme vantaggio, non solo economico, per tutti i sistemi di comunicazione.

(Quanto si stia andando indietro è dimostrato non solo dalla grottesca complessità dei telefoni cellulari, che li rende quasi ingestibili, ma anche dai televisori, che con il “passaggio al digitale” sono diventati computer, ereditando le aberranti disfunzioni della degenerata elettronica, compresa una fastidiosa lentezza nell’eseguire qualsiasi “comando”).

In giugno si è colto qualche segnale di una presa di coscienza: la necessità di invertire, finalmente, il percorso delle tecnologie, capire l’importanza della semplicità.

In luglio si è trattato del “computer da 25 euro”. Cioè della possibilità che si realizzi quella macchina semplice, economica e robusta che stiamo aspettando da venticinque anni (o forse quaranta, se contiamo da quando è stato realizzato il primo prototipo di personal computer). Sarà vero, o anche questa volta rimarrà nel polveroso scaffale delle “buone intenzioni”? Lo vedremo nei prossimi anni. Ma almeno sappiamo che qualcuno ci sta pensando.

Un’altra piccola, ma confortante, notizia è che qualcuno dice: «Siamo in transizione, stiamo imparando». È il titolo di un’intervista di Giuseppe Granieri a Henry Jenkins, pubblicata il 4 agosto 2010. Il concetto è importante, ma si tratta di definire il significato. Se la “transizione” è riferita a pochi anni, e a presunti cambiamenti di scenario in questo periodo, sono chiacchiere inutili. Invece è importante capire che siamo “in transizione” da sempre, ma in modo particolare da un po’ più di un secolo e mezzo, quando con il telegrafo è cominciato lo sviluppo di sistemi di comunicazione immediati a grande distanza.

In tempi più recenti, è nata la comunicazione online. Con i bbs nel 1972, file transfer e telnet nel 1974, i newsgroup nel 1979, l’internet nel 1983, la world wide web nel 1989. E poi un mare di chiacchiere sulla rete che è cominciato una quindicina di anni fa e continua a confonderci le idee.

È importante capire che “stiamo imparando”. La rete è ancora molto giovane. Anche chi la frequenta fin dalle origini ha bisogno di continuare a imparare, badando poco alle “mode” del momento e pensando soprattutto ai valori umani. Se è vero che non c’è stupido più stupido, o ignorante più ignorante, di chi si illude di “sapere tutto”, lo è ancora di più nel caso di uno sviluppo recente (quarant’anni sono pochissimi nell’evoluzione delle culture umane).

Ho comprato il libro di Henry Jenkins, Convergence Culture. Ma non so quando troverò il tempo di leggerlo. Per queste brevi osservazioni mi bastano le sue risposte nell’intervista. Che comincia con un’affermazione interessante. «La questione importante non è ciò che la tecnologia sta facendo a noi, ma ciò che stiamo facendo noi con la tecnologia». Questa è la base di ogni analisi che possa portare a risultati fertili e utili.

Gli strumenti possono essere interessanti in sé, talvolta divertenti. Sono sempre stato affascinato dalle cartolerie e dai negozi di ferramenta. Un cacciavite ben fatto è bello oltre che utile. E così un quaderno, una cartella, un’agenda (continuo a usare quella di carta, perché è più comoda che averla in un computer o in un telefono). Ovviamente anche le macchine elettroniche (quando funzionano) hanno un loro fascino. Ma ciò che conta è sopratutto come le usiamo – e quanto siano adatte alle nostre esigenze.

Le tecnologie più efficienti sono quelle di cui non si parla mai, perché funzionano in modo (per chi le usa) molto semplice. Siamo talmente abituati che, quando non funzionano, rischiamo di essere spaventati e confusi. Dovremmo essere un po’ meglio preparati a non “fidarci troppo” – ma quello è un altro discorso.

La rete è uno strumento di libertà. Ma molti degli sviluppi lavorano in senso contrario. Sistemi “chiusi” che impongono i loro criteri. Situazioni “pilotate” che tentano di portarci dove non ci interessa andare – o di indurci a farlo con un percorso che non è il più utile per noi. Applaudire queste trappole come “innovazione” vuol dire assecondare il futile, l’inutile o (ancora peggio) le deformazioni di un sistema che è nato per essere al nostro servizio e invece tenta di “pilotare” le nostre scelte.

«Le tecnologie – Dice Henry Jenkins – hanno caratteristiche intrinseche che rendono alcune cose più facili da fare e altre più difficili. Ma sono anche inserite in un contesto culturale che ci rende più o meno propensi a utilizzare queste opzioni in modi diversi. Se la tecnologia non si adatta al contesto culturale, la tecnologia può essere adottata o non essere adottata, o addirittura può essere adattata per nuovi scopi».

Fa notare, per esempio, che il fonografo (antenato del grammofono) era stato concepito (130 anni fa) come dittafono. Si capì quindici anni più tardi che serviva per la musica. (Si potrebbero citare vari esempi di casi analoghi – e chissà quanti ce ne saranno che oggi non siamo in grado di prevedere).

Comunque è evidente, ma troppo spesso dimenticato, che le tecnologie, come tutti gli strumenti, sono valide quando “rendono le cose più facili da fare” – e sbagliate, o immature, quando fanno il contrario. Cosa che sarebbe lapalissiana se non fossimo continuamente perseguitati da insensate complicazioni.

Ma la chiarezza sta in una visione più radicale. La cultura è, e deve essere, la forza dominante. Una macchina che non corrisponde alle esigenze umane o è un esperimento di laboratorio o è un giocattolo. E i giocattoli migliori sono quelli che servono per imparare. (Senza bisogno che siano dichiaratamente “didattici” – cosa che può essere pericolosa quando diventa asservimento a una particolare “dottrina”).

Soprattutto (e per fortuna qualcuno lo capisce) la comunicazione è un insieme. I nuovi strumenti non sostituiscono i vecchi, diventano parte di una nuova orchestrazione. Che, quando è armoniosa, è un miglioramento. Ma attraversa inevitabilmente fasi di cacofonica confusione, che occorre superare perché il progresso non diventi decadenza.

In questo periodo, in varie dissertazioni sull’argomento (compresa l’intervista a Henry Jenkins) si cita spesso il fatto che Socrate diffidava della parola scritta. Che cosa si sta cercando di insinuare? Che Socrate era, già ai suoi tempi, antiquato? Che sbagliava credendo nell’importanza del dialogo? È vero che non ci ha lasciato testi scritti, tutto ciò che sappiamo di lui è riferito da Platone o da altri autori. Ma sarebbe pericolosamente stupido dedurne che “Socrate è superato”. Molto del suo pensiero è di straordinaria attualità.

Dobbiamo rinunciare alle “diavolerie” moderne, ritornare all’antico? Ovviamente no. Ma ci sono molte cose che l’umanità ha imparato migliaia di anni fa e che sono valide oggi, più che mai.

Per esempio – si fa un gran parlare di libri in elettronica. Sono tutt’altro che una novità. Esistono da quarant’anni. Gli sviluppi attuali (troppo spesso applauditi come se fossero miracolose invenzioni) vanno nella direzione sbagliata. Un'assurda competizione fra costosi aggeggi “proprietari”, ognuno dei quali funziona solo per i testi distribuiti da un particolare fornitore.

Sarebbe come se Johann Gutenberg o Aldo Manuzio avessero fatto libri stampati con un inchiostro invisibile, decifrabile solo con un particolare filtro ottico, venduto a un prezzo da gioielleria. Sarebbero precipitati nel ridicolo, oltre al severo sdegno di tutta la cultura umanistica.

Siamo in tanti, per fortuna, a preferire i libri stampati. C’è spazio anche per altri strumenti di lettura? Ovviamente si. Già lo facciamo, da più di trent’anni, con qualsiasi computer. Occorrono anche aggeggi particolarmente adatti allo scopo? Non è affatto chiaro – e probabilmente, quando si uscirà dall’attuale confusione, si capirà che non è quello il modo più efficace. Ma una cosa è evidente: la soluzione non sta nel marasma delle mode e nella moltiplicazione di congegni incompatibili.

Insomma, in tutti i sistemi di informazione e comunicazione, lo sviluppo sta nell’abbandonare i vicoli ciechi di “ciò che la tecnologia fa a noi” e ritrovare la strada maestra di “ciò che noi facciamo con le tecnologie”. O senza.

Qualcuno lo dice. Ma si tratta di passare, con ostinata concretezza, dalle parole ai fatti. Tecnicamente, non è difficile. Ma è più complesso liberarci delle abitudini sbagliate, e delle false culture, che ci hanno infilato in un tortuoso labirinto in cui è inutile cercare un’uscita, perché ciò che serve è un percorso del tutto diverso, molto più semplice e diretto.

Qualche voce di buon senso è incoraggiante. Ma non basta. Occorre, nei fatti, un radicale cambiamento di prospettiva. È un ritornello che non posso stancarmi di ripetere. Le tecnologie al servizio delle persone. Mai viceversa.




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