Umanità e tecnologia
diritti civili ed efficienza


Relazione di Giancarlo Livraghi per ALCEI
nella giornata di studi sul trusted computing

Università Statale di Milano – 12 maggio 2006



Questo convegno si occupa di un fatto importante quanto specifico: il problema del cosiddetto trusted computing – che, come oggi è stato ampiamente spiegato, è tutt’altro che qualcosa di cui ci si possa fidare.  (Questo è un argomento di cui la nostra associazione si occupa attivamente da alcuni anni – vedi per esempio il comunicato ALCEI La sicurezza non deve diventare un pretesto per la invasività del 22 gennaio 2003).

Mi è stato chiesto un intervento per inquadrare quel particolare problema in una prospettiva più estesa che riguarda i diritti civili, la libertà e la cultura della comunicazione e dell’informazione.


Libertà, cultura, diritti e disattenzione

Una difficoltà che tutti noi stiamo affrontando, quando ci occupiamo di questi problemi, è la scarsa attenzione (soprattutto la scarsa continuità) con cui la società in cui viviamo si impegna nella difesa dei diritti umani, della libertà di informazione e comunicazione, della vita culturale individuale e collettiva.

Occorre continuamente ribadire che libertà, cultura e diritti civili sono valori fondamentali. Che informazione e comunicazione sono risorse irrinunciabili. Nessuno deve mai esserne “padrone” o proprietario, a nessuno deve essere consentito di averne il controllo. In teoria, queste sono cose ovvie e riconosciute da tutti. In pratica, è dolorosamente evidente che il sistema in cui viviamo subisce molte costrizioni e interferenze. E che ci sono continui tentativi di fare ancora peggio.

Chi, come noi, si impegna su questi argomenti ha spesso la sensazione di essere vox clamans in deserto. Il suo lavoro somiglia alla fatica di Sisifo. Chi se ne è in qualsiasi modo occupato con continuità (non solo con qualche inefficace indignazione occasionale) sa quanto sia faticoso – e spesso deludente. Ma sarà bene che qualcuno continui a tenere gli occhi aperti, perché i pericoli sono reali e preoccupanti.


Pericoli reali: censura, controllo,
centralizzazione, invasività

Molti sembrano pensare che chi si preoccupa di libertà e diritti civili stia esagerando. Tutto sommato, e “nonostante tutto”, viviamo in una società democratica in cui c’è libertà di opinione. Ma la cosa non è così semplice. I sistemi sono fortemente centralizzati. L’opinione dominante è “omogeneizzata”, monotona, ripetitiva.

Quando qualcosa (per esempio l’internet) si rivela “troppo” libera e molteplice, suscita ogni sorta di paure e tentativi di repressione. Che c’erano dodici anni fa – e continuano oggi.

Con un’infinità di pretesti, dalla criminalità al terrorismo, dal cosiddetto “diritto d’autore” alla ”difesa dei più deboli”, si moltiplicano i tentativi di censurare, vietare, bloccare, intercettare, spiare, condizionare, centralizzare, eccetera. E questo non accade solo in Cina o nell’Arabia Saudita. In modo meno violento (e soprattutto meno dichiarato) tante diverse forme di repressione sono una continua minaccia anche in Italia. (Vedi, per esempio, La sindrome cinese).

Le persone qui presenti oggi sanno bene di che cosa sto parlando. Ma il fatto è che, per la maggior parte, la cultura in cui viviamo non si rende conto di questi problemi – o, al di là di qualche generica indicazione di “buone intenzioni”, non ha alcuna voglia di occuparsene.


Non basta agitarsi su singoli episodi,
occorre un impegno continuo

Può accadere che su fatti specifici sia utile e opportuno intervenire (se possibile) con tempestività. Ma non si cambia una cultura, un sistema di abitudini o di problemi variamente radicati, né in un giorno, né in un mese, né in un anno. È sempre meglio avere una visione chiara del “prima” e del “dopo”, delle connessioni con altri fenomeni, insomma del quadro generale, o comunque più esteso, in cui si colloca un particolare argomento.

Può essere utile (spesso è necessario) analizzare a fondo un problema specifico, capirlo in tutti i suoi aspetti e correlazioni. Ma è altrettanto importante collocarlo in una prospettiva più ampia, coglierne i valori nel quadro generale (e, allo stesso tempo, capire quali approfondimenti su un tema specifico possono trovare applicazione anche in campi diversi).

Questo tema meriterebbe più tempo di quanto ne abbiamo qui oggi. Pensiamo, per esempio, all’enorme potenziale, troppo spesso inutilizzato, degli sviluppi “interdisciplinari”.

Ma la sostanza è semplice: occorre continuità nel tempo, e ampiezza di prospettive, per evitare che (come spesso accade) anche le iniziative più interessanti si esauriscano in effimeri “fuochi di paglia”.


Orwell e Huxley:
1932, 1945, 1948 ... e oggi?

Ha un chiaro ed evidente significato il fatto che l’organizzazione di questo convegno faccia riferimento a “1984”. Spero di non annoiarvi con qualche breve commento a questo proposito. Non è una “digressione letteraria” e credo che abbia qualche utilità per aiutarci a ragionare sulla situazione di oggi. (A questo proposito vedi anche 1994, 2004... “1984”).

Quando George Orwell scrisse “1984” non stava immaginando un ipotetico mondo futuro. Il suo libro è una dura allegoria del presente. Ha precisi riferimenti a ciò che era realtà nel 1948 – e che, in forme diverse, continua a succedere in molte parti del mondo.

Tre anni prima, nel 1945, Orwell aveva scritto un altro libro: Animal Farm (“La fattoria degli animali”). In cui “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”. Anche in quel caso c’era un chiaro riferimento a ciò che accadeva sessant’anni fa. E anche questa è una situazione che, in tanti modi diversi, stiamo vivendo ancora oggi.

Sono passati 74 anni da quando, nel 1932, Aldous Huxley pubblicò Brave New World (il titolo “shakespeariano” è difficilmente traducibile... la versione italiana “Il mondo nuovo” non è perfetta, ma sarebbe difficile trovarne una migliore). Un testo di straordinaria lucidità e intelligenza, che non aveva alcuna pretesa di essere una profezia, ma coglieva già allora prospettive molto preoccupanti – che oggi sono ancora più pericolosamente plausibili.

Ovviamente non ci sono solo Orwell e Huxley. Anche altri autori hanno tracciato “scenari del possibile” su cui è utile ragionare. Mi fermo qui perché sarebbe lungo elencarli. Ma (senza continuare su un argomento che potrebbe portarci lontano) credo che almeno quei tre libri meritino di essere riletti con attenzione nella prospettiva di oggi.


Opensource: non solo tecnologia

Anche questo è un argomento cui si potrebbero dedicare parecchi giorni di dialogo e approfondimento. E infatti c’è una vasta (forse eccessiva) disponibilità di documenti e di discussioni, in Italia come in mezzo mondo. Mi limito a una osservazione, secondo me, fondamentale: non si tratta solo di tecnologia.

Al di là e al di sopra del fatto specifico (sistemi operativi e software) gli strumenti di comunicazione e di informazione non possono e non devono essere “proprietà privata”. Nessuno è proprietario dell’alfabeto, della lingua, delle note musicali... eccetera.

Antonio Stradivari aveva tutti i diritti di conservare in suoi “segreti di bottega” e di vendere a caro prezzo strumenti di particolare qualità. Ma né lui, né altri hanno mai avuto il “brevetto” del violino. Ci sono mille modi per assicurare a persone o imprese il “legittimo guadagno” per il loro lavoro e i loro investimenti. Ma ogni sorta di monopolio od oligopolio è inaccettabile – e a nessuno può essere consentito il controllo di quelle “risorse di base” che sono, e devono essere, patrimonio comune di tutta l’umanità.

Questo concetto non riguarda solo le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ma un’infinità di altre risorse. Compresa l’acqua che beviamo e l’aria che respiriamo. Per non parlare della complessità che l’argomento assume in alcuni settori – per esempio la biologia e la genetica (la rilettura di Huxley è particolarmente rilevante in questo campo).

Scusatemi per quella che può sembrare una “battuta”... a questo punto mi viene in mente un’ipotesi... non sto del tutto scherzando quando dico che, se qualcuno brevettasse il Dna, potrebbero obbligarci ad appiccicare chissà dove un bollino Siae per poter fare l’amore.

“Fuor di metafora”... il problema è serio. Di qualunque argomento si tratti, l’interesse comune deve essere posto al di sopra di ogni ingordigia privata e di ogni ambizione di potere. Se i diritti civili fondamentali (compresi, ma non solo, quelli di informazione e comunicazione) sono intaccati o deformati in qualsiasi modo, i danni per la società e la comunità umana sono estremamente gravi. È ovvio? Dovrebbe... ma i fatti ci dicono che la situazione è molto distorta e tende a peggiorare.

Quando dico queste cose, talvolta mi si accusa di essere “una Cassandra”. Se fosse vero, ne sarei onorato. Cassandra non era una strega, né una profetessa di sventura. Era una ragazza intelligente che vedeva un po’ oltre le apparenze. Se le avessero dato retta, i troiani avrebbero evitato una catastrofe.


Risorse di informazione
e comunicazione in Italia

A questo punto... una breve parentesi: se vogliamo capire ciò che accade con le “nuove tecnologie”dell’informazione, è utile osservarle nel quadro generale.

Tutto il sistema è profondamente deformato, con preoccupanti fenomeni di concentrazione e “omogeneizzazione“. Il “paradosso dell’abbondanza” produce situazioni di congestione, che anziché facilitare la comunicazione e l’informazione la rendono più difficile. La soluzione, ovviamente, non sta nella riduzione o nel condizionamento delle risorse, ma in una profonda maturazione culturale.

Questo problema esiste in tutto il mondo, ma ci sono particolari squilibri e debolezze in Italia. Per chi volesse approfondire l’argomento, anche con l’analisi di dati aggiornati e rilevanti, può essere utile un esteso rapporto, basato sugli studi del Censis, recentemente pubblicato in questo sito


Sistemi aperti e condivisi:
risorsa di libertà, ma anche di efficienza

L’uso di sistemi opensource (nel senso tecnico della parola – e nel significato più ampio del concetto, di cui abbiamo già parlato) è soprattutto un diritto fondamentale di libertà e di civiltà sociale. Ma non è da sottovalutare il fatto che è anche un notevole fattore di efficienza – nei servizi pubblici come nelle imprese private.

Come ha detto tante volte ALCEI (da molti anni impegnata anche su questo tema) l’uso di tecnologie “aperte” è (o dovrebbe essere) un dovere per i servizi pubblici, ma non può essere imposto forzatamente ai privati – persone e imprese. “Se hanno voglia di farsi del male, devono essere liberi di imparare sbagliando”. Ma ciò non significa che sia una buona idea scegliere (o lasciarsi somministrare) strumenti sbagliati e dannosi.

Non si tratta solo del fatto che molte tecnologie “proprietarie” costano molto di più delle equivalenti (spesso migliori) soluzioni opensource. Si tratta anche delle inefficienze (oltre alle spese) cui si va incontro accettando passivamente ciò che propone non un libero “mercato”, ma un sistema imprigionato da opprimenti tirannie monopoliste.

I vantaggi di risorse “libere e aperte” non sono soltanto etici, funzionali, civili e sociali. Sono anche economici. Un fatto che non dovrebbe sfuggire a chi, in qualsiasi sede o ruolo, ragiona su innovazione e competitività – né a ogni impresa, in ogni settore, che vuole meno sprechi e più efficienza.


In conclusione...

I problemi sono tanti, complicati, non sempre facilmente spiegabili. Ma credo che in tutte le infinite variazioni del tema ci sia un filo conduttore, un’idea centrale, che si può riassumere in poche parole. Spero che sia condiviso da tutti (almeno qui, oggi, fra noi) questo che mi sembra il concetto fondamentale.


nessuno
 
né stato, né impresa, né persona
 
può essere “proprietario”
dell’ambiente, della cultura,
della scienza, della conoscenza,
delle risorse fondamentali
di informazione e comunicazione

 
sono diritti irrinunciabili
di tutta l’umanità





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