girasole

La coltivazione dell’internet


Capitolo 37
1999–2000: il cambiamento

La situazione in Italia sta cambiando. L’internet non è ancora entrata nella vita "di tutti", ma non è più una cosa "per pochi". Nell’appendice del libro, nella rubrica Il mercante in rete su questo sito, come negli aggiornamenti che seguiranno, ho cercato e cercherò di raccogliere dati, il più possibile precisi e chiari, sulla situazione della rete in Italia, in confronto all’Europa e al resto del mondo. Le informazioni sono un po’ confuse, i numeri spesso contraddittori, ma un fatto è chiaro. Dalla seconda metà del 1998 c’è un cambiamento, con una marcata accelerazione nel 1999. Non solo il numero di persone che frequentano l’internet è in forte aumento, ma l’esperienza della rete non è più il privilegio di un’élite relativamente ristretta. Si sta allargando a categorie economiche, sociali e culturali molto più estese. Siamo ancora lontani dai livelli dei paesi più avanzati, ma abbiamo superato la "soglia" oltre la quale è inevitabile una crescente diffusione.

L’altra novità di quest’anno è che si è preso atto della nostra impreparazione. Ciò che si "mormorava" in rete, ma non saliva "all’onore delle cronache", ora è una constatazione diffusa. A partire dall’autunno del 1998, si è cominciato a prendere coscienza della situazione. Un anno più tardi il problema è arrivato all’attenzione delle grandi istituzioni economiche e politiche. Il 3 settembre 1999, nel convegno di Cernobbio che vedeva riuniti i rappresentanti delle più "alte sfere" della nostra economia, si è constatato che le imprese italiane sono arretrate e impreparate nell’uso dei nuovi sistemi di comunicazione.

Il tema è stato ripreso da Ferruccio De Bortoli in un articolo di fondo sul Corriere della Sera del 28 novembre 1999.

Ci siamo resi perfettamente conto, al di là delle dell’ubriacatura borsistica, della portata che la rivoluzione digitale avrà nella nostra società? Probabilmente no, o se sì spesso solo a parole o per impulso emotivo, per convincimento mistico. .... Cambia il modo di produrre, di fare impresa, di lavorare. È un problema di adesso, non di domani. Di tutti, non di qualcuno soltanto. Il potere si trasferisce dalle imprese ai consumatori, dalle amministrazioni ai cittadini, dai media agli spettatori e ai lettori. Peccato che nel nostro paese si investa così poco sul capitale umano. Anche nelle maggiori aziende, con poche lodevoli eccezioni, persistono alcuni atteggiamenti culturali significativi. L’e–commerce? Ho altro a cui pensare. L’internet? Siamo pronti, se ne occupa già qualcuno in azienda. Insomma: riguarda gli altri, per ora io mi salvo. Il dirigente naviga a parole, l’e–mail lo manda la segretaria. L’innovazione, che è anche formazione e sensibilità verso gli investimenti nell’educazione e nel sistema scolastico, non è ancora cultura diffusa e condivisa, vittima di paure e diffidenze. L’innovazione è competitività, quella che stiamo drammaticamente perdendo senza avere più la morfina della svalutazione. Il lavoro e il benessere futuri dipendono fortemente dagli investimenti nella conoscenza. La rete sarà anche una livella, democratica, che non esclude nessuno, ma chi non ha tecnologie dell’informazione, servizi da offrire, contenuti da proporre e idee d’impresa da sviluppare ne resterà schiacciato, o ben che vada si prenderà solo le briciole. Pagherà il lavoro fatto da altri e altrove. I risparmiatori magari ne sottoscriveranno i titoli in borsa, forse ci guadagneranno. Ma strada il paese ne farà poca. Chi non vive lo spirito del suo tempo, scriveva Voltaire, del suo tempo si prende solo i mali. E, adesso, si è fatto un po’ tardi.

Non sono constatazioni nuove; ma è interessante come questi concetti stiano cominciando ad emergere anche sulle prime pagine dei grandi quotidiani.

Un’altra occasione in cui si è rivelato un cambiamento nella percezione della rete è stata la presentazione, il 18 novembre 1999, dell’analisi annuale degli investimenti in comunicazione d’impresa svolta da Astra–Intermatrix per l’UPA (utenti pubblicitari associati). C’era aria di ottimismo; dopo un periodo di crisi fra il 1992 e il 1995 gli investimenti sono in forte crescita, con un tasso nettamente superiore a quello del reddito nazionale e dei consumi. Nel 1999 si stima che la spesa totale in Italia abbia superato i 15.500 miliardi per la "pubblicità classica" e i 27.400 miliardi per complesso della attività di comunicazione, comprese promozioni, direct marketing, relazioni pubbliche e "sponsorizzazioni".

E l’internet? Non misurata – e finora non misurabile. "Si dice" che in pubblicità nell’internet si siano investiti circa 40 miliardi (2,5 per mille del totale nei "mezzi classici") e che la spesa complessiva delle imprese in siti web o altre attività in rete sia di circa 400 miliardi (1,5 per cento sul totale in comunicazione d’impresa). Ma al di là di ogni fatto quantitativo ci sono considerazioni qualitative che mi sembrano rilevanti e che sono emerse, per la prima volta, nella sede "istituzionale" delle imprese che investono in pubblicità.

Le valutazioni espresse in una sede come quella non sono le opinioni di un istituto di ricerche o di un’associazione, ma riflettono le percezioni diffuse nel mondo delle imprese. Il loro stato d’animo si può riassumere in tre punti.

  • Non abbiamo capito come valutare o misurare la comunicazione in rete. Dovremo approfondire il problema e definire nuovi criteri di valutazione.
  • Non sappiamo come usare efficacemente la rete ma è venuto il momento di occuparsene seriamente perché sta cominciando a diventare importante davvero.
  • Abbiamo capito che l’internet non è semplicemente "un altro mezzo pubblicitario"; dovremo definire nuove strategie, trovare o sviluppare competenze adatte.

Tutto questo è ancora "in nuce", ci sono ancora molti dubbi e pregiudizi; ma un nuovo segnale si aggiunge ad altri che già puntavano nella stessa direzione. Le imprese cominciano a capire che devono approfondire più seriamente i nuovi sistemi di comunicazione.

Nello stesso periodo, il governo ha annunciato un piano di "incentivi" per cercare di incoraggiare le nostre imprese a dotarsi di strumenti adeguati alla "nuove economia". Come spesso accade, questi interventi non solo sono tardivi, ma probabilmente sono poco efficaci. Ma il fatto positivo è che finalmente (anche se con alcuni anni di ritardo) si diffonde la coscienza della nostra arretratezza. Non sempre, quando ci si accorge di avere un problema, si trova subito la soluzione; ma la diagnosi è il primo passo per arrivare alla terapia.

Non sono mai stato nazionalista. Ho lavorato per molti anni al servizio di imprese multinazionali. Ho molto rispetto per le loro capacità e da loro ho imparato gran parte di quello che so sul marketing, sulla comunicazione e sulla gestione d’impresa. Credo nella libertà di scambio e nella competizione internazionale. Ma quando si tratta della rete penso alle difficoltà cui andremo incontro se l’Italia non avrà un ruolo più attivo. Non sarò tranquillo fino a quando, anche a proposito dell’internet, sentirò parlare più spesso di esportazione.

Che nessuno abbia un adeguato "capitale" di esperienza, è ovvio: questo è un fenomeno troppo nuovo perché chiunque possa definirsi "esperto" – ed è in continua evoluzione. Ma i "consulenti di webmarketing" ci sono. I migliori ammettono l’inesperienza e la necessità di continuare a imparare; ma (grazie anche alla loro socratica saggezza) sono in grado di offrire alle imprese una collaborazione utile e concreta. Il problema è che non basta trovare una buona risorsa esterna: occorre che l’impresa abbia un’idea chiara di ciò che vuole, una strategia precisa, e risorse interne capaci di gestire e seguire il progetto. Occorre dedicare a questo nuovo campo d’azione una quantità adeguata di tempo, risorse ed energie. Per fortuna non è troppo tardi. Lo sviluppo, in tutto il mondo, è così giovane e turbolento che non abbiamo ancora "perso l’autobus". Ma è venuto il momento di occuparsene seriamente.


Il ruolo insostituibile delle imprese

Credo che si debba pensare all’Italia come a una comunità. Se ci saranno interventi davvero utili da parte delle autorità politiche, delle grandi forze economiche e dell’Unione europea, tanto meglio. Ma nulla può sostituire l’impegno diretto delle imprese, grandi e piccole, per affermare il made in Italy nel mondo usando tutte le risorse della rete.

Questo significa che un’impresa, per poter operare in rete, deve farsi carico dell’immane e compito di far progredire un intero paese? Ovviamente no. Ma la rete non è un universo esteso e omogeneo. È, per sua natura, un sistema di reti, grandi e piccole, di comunità e aree di scambio, ognuna con la sua cultura e i sui costumi. Quindi ogni impresa può scoprire o creare il suo ambiente, trovare o far nascere – e coltivare – il campo che le è più congeniale. Una somma di tante attività, ognuna con una sua identità e un suo stile, può far molto di più per la crescita della rete in Italia di qualsiasi generico impulso erga omnes. Può sembrare un’impresa pionieristica e inutilmente faticosa. Qualcuno dice: «Perché devo tracciare sentieri invece di percorrere un’autostrada che qualcuno sta costruendo? Dovrò pagare il pedaggio, ma eviterò la fatica e il rischio di essere un apripista che fa la strada per gli altri».

Forse due o tre anni fa un atteggiamento "attendista" poteva essere giustificato. Ma ora la possibilità di ottenere risultati concreti è molto maggiore; e tanto più immediata quanto più ognuno agisce secondo la sua esperienza, le sue esigenze e le sue capacità. Ogni "attore intelligente" nella rete, grande o piccolo, contribuisce alla crescita generale. Più sono numerosi e diversi, più si aiutano a vicenda; se ognuno fa bene la sua parte, il vantaggio è di tutti. Con una differenza importante: i primi ad aprire strade, a esplorare, a imparare, costruiscono un capitale di esperienza e un tessuto di relazioni che appartengono a loro. Non sarà facile raggiungerli per chi arriverà dopo e cercherà di imitarli. Ciò di cui abbiamo bisogno è una proliferazione di "apripista" che sappiano non solo sviluppare la rete in Italia, ma andare alla conquista del mondo.







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